Un lupo all’Università

Non scene di panico, ma interesse tra le studentesse che frequentano il corso interdisciplinare “Università e mondo della pena”, quando, nel pomeriggio del 12 gennaio in un’aula Liss, presentando l’argomento del volontariato in carcere, si è detto dell’ispirazione francescana dell’associazione La Fraternità con l’immagine del lupo di Gubbio.

Invece di combattere il brigante lupo con altrettanta violenza, come facevano inutilmente i cittadini impauriti, S. Francesco si è chiesto il perché delle sue incursioni e ha cercato di dare alla sua legittima domanda di cibo una risposta soddisfacente per tutti, senza altra violenza da entrambe le parti. E il lupo, che finalmente si è sentito ascoltato e capito, ha dato la zampa a garanzia del suo impegno.

Oggi un intervento per evitare risposte illegali, controproducenti, che portano in galera, alle domande provenienti in gran parte dalle situazioni di povertà, consisterebbe in un ventaglio normativo e di servizi sociali: lavoro ai disoccupati, accoglienza e integrazione agli stranieri, programmi terapeutici ai tossicodipendenti, sostegno ai fragili e disturbati psichici.

Il volontariato si adopera in questa direzione. Dopo essere nato con intenti caritatevoli per alleviare le situazioni di sofferenza, ha scelto di concentrare le iniziative sulle finalità educative della pena, per dare motivazioni e opportunità al cambiamento. E ha capito infine che il cambiamento non può riguardare solo la persona incarcerata, ma deve estendersi al contesto familiare, sociale, istituzionale, politico.

Saldamente coerente con i principi costituzionali e dell’ordinamento penitenziario, il volontariato cerca di dare un senso alla pena: che quando possibile, quando non ci sono pericoli attuali, si svolga con modalità alternative e diverse dal carcere; che non soffochi i diritti umani del condannato; che tenda a renderlo responsabile di quanto ha fatto, per una riparazione alla vittima diretta o alla società offesa, per una ricostruzione della convivenza nella legalità.
Per questo, più ancora dell’attività in carcere, è importante la sensibilizzazione all’esterno, per superare la disinformazione e mostrare l’irrazionalità di un’opinione ancora prevalente che pensa alla pena come vendetta, come male che dovrebbe compensare il male del reato.

In questo riferimento di valori si sono inserite le numerose testimonianze di volontari della Fraternità che hanno raccontato le loro esperienze in progetti e attività, prevalentemente, ma non solo, interni al carcere o di collegamento tra detenuti ed esterno.
Testimonianze che hanno riguardato i colloqui individuali, di primo ingresso o successivi; il sempre più difficile aiuto nella ricerca di un lavoro per quando si sarà scarcerati; i problemi specifici dei detenuti stranieri, che a Montorio sono oltre il 60%, spesso senza permesso di soggiorno; inoltre percorsi di gruppo su temi che danno opportunità di confronto e reciproco arricchimento proprio alle diversità culturali; e altri incontri di gruppo per elaborare le relazioni affettive sempre intrecciate ai fattori di reato ma anche alle risorse di sostegno.

C’è poi all’esterno un gruppo di volontari in fitta corrispondenza con detenuti di molte carceri italiane; e un’attività rivolta alle famiglie, con incontri periodici di autoaiuto e convivialità ed eventuale ulteriore supporto alla singola famiglia.
Una ormai ex studentessa, che aveva frequentato quattro anni fa il primo corso “Università e mondo della pena” con successivo tirocinio, gestisce ora lo sportello interno ed esterno di “segretariato sociale“.

Anche due “allieve” hanno contribuito raccontando una l’esperienza di colloqui, come suora, nella sezione femminile di Montorio, dopo una tesi sul rapporo tra Chiesa e pena; l’altra sulla ricerca in atto, sempre per la tesi, sull’educazione in carcere.

Nella discussione conclusiva si sono toccati problemi come le differenze di ruolo tra servizi istituzionali e volontariato, se esiste una specifica relazione d’aiuto rivolta a chi sta in carcere, il sovraffollamento e alcune sue cause (e l’ipocrisia di alcune soluzione proposte), la difficoltà di accettazione o l’impotenza rieducativa nei riguardi in particolare di chi ha commesso certi reati sessuali.