Un libro cambia la vita

Un bellissimo articolo sul giornale “La Stampa” di oggi: un’iniziativa nata a Modena che può davvero cambiare la vita dei detenuti e che varrebbe la pena essere replicata da qualche altra amministrazione “illuminata”

Un concorso letterario per restituire “Umanità” e “Speranza” ai detenuti.

Un libro cambia la vita. E in carcere lo può fare davvero, senza retorica, anche perché là dentro le parole finte e vanagloriose valgono nulla. Per questo oggi debutta il «Sognalib(e)ro», un premio letterario per detenuti. Nasce a Modena, perché è terra di Tassoni, che profuse libertà a secchiate in tempi di cupe catene, e perché l’assessore alla Cultura di quella Città l’ha sostenuto insieme al ministero della Giustizia. Nasce anche da un’esperienza concreta.

 

Qualche anno fa «Tuttolibri» organizzò un concorso per poeti dilettanti. Tra le tante (ne arrivarono quasi 5 mila), c’era un gruppo di poesie scritte da detenuti di Opera che trasudavano la bellezza forte e agra della vita, quella vera. La giuria ne premiò alcune. Conoscemmo personalmente alcuni autori. Un ragazzo albanese che stava scontando la pena con una serenità e una voglia di riscatto ammirevoli, perché in galera aveva imparato a costruire violini e a scrivere un italiano asciutto, perfetto, forbito, leggendo Ungaretti, Montale, Verga.

 

Un suo collega, che aveva trascorso lunghi anni in cella, e il fine pena sarebbe arrivato entro qualche mese, raccontò che da quasi analfabeta s’era accostato a Neruda, Hemingway, e via via ai grandi della letteratura mondiale. Li aveva letti, meditati, assimilati, per scrivere a sua volta, e inventarsi un’esistenza diversa nella riconquistata la libertà. Due storie vere. Di delitti, castighi, e «rieducazione» (come prevede la nostra Carta), che non sono usciti da un romanzo edificante dell’800 ma da un universo, quello carcerario, che gronda disagio. E oltre tutto in un Paese come il nostro in cui i libri sono snobbati, disprezzati, dimenticati, perché un italiano (libero) su due non ne fa mai uso nell’affannarsi quotidiano.

 

Da questa esperienza, dunque, parte il «Sognalib(e)ro», rivolto a dieci istituti italiani (vorremmo che in futuro se ne unissero altri). Tre scrittori italiani – Ferrante, Manzini, Siti – hanno scelto tre romanzi per la gara – «Una storia nera» della Lattanzi, «L’Arminuta» della Di Pietrantonio, «Perduto in paradiso» di Pasti. I volumi in lizza vengono distribuiti negli istituti, letti, e votati come fosse uno Strega o un Campiello. Chi ottiene più voti vince. La seconda fase del «Sognalib(e)ro» è invece destinata ai detenuti in quanto scrittori. Il miglior autore di romanzo o memoir sarà pubblicato da Giunti, avrà quindi come premio il privilegio di entrare a pieno diritto nel normale circuito editoriale.

 

La lettura in carcere è già una realtà. Da anni un silenzioso esercito di educatori, volontari, scrittori, la promuove tra mille difficoltà, spezzando l’apatia di una popolazione che vegeta tra celle sovraffollate in un tempo che pare immobile. Il «Sognalib(e)ro» aggiunge a questa esperienza un piccolo valore simbolico in più. Il detenuto che spesso è invisibile, semplice numero per statistiche del disagio e del mal vivere, nemico escluso dal mondo, diventa grazie al libro un individuo. Che legge. Che pensa. Che dà un voto e un giudizio. Torna ad essere, cioè, un uomo.