Teatro dentro e fuori dal carcere.

C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce”, cantava Leonard Cohen. È quello che succede a Rebibbia Femminile e nel carcere di Latina, grazie all’associazione Per Ananke e a Francesca Tricarico

Occhi brillanti, sorrisi e qualche lacrima di commozione. E una standing ovation che ha tenuto in piedi tutto lo Spazio Rossellini, un intero teatro lì per loro, Le Donne del Muro Alto, alla loro prima grande serale romana. “Quello che vedrete non è uno spettacolo, è un’esperienza”, ci avevano avvertito, e in effetti “Ramona e Giulietta” è molto di più: è il teatro come luogo della verità, dove il dentro e il fuori si mescolano in un gioco di specchi da cui si esce diversi, più ricchi.PUBBLICITÀ

A renderlo così speciale è il luogo della sua nascita: la Casa Circondariale Femminile di Roma Rebibbia, dove dal 2013 l’associazione Per Ananke sta portando avanti un innovativo progetto di teatro in carcere. Scritto e diretto dalla regista Francesca Tricarico con le attrici detenute di Rebibbia Femminile, “Ramona e Giulietta” è interpretato dalle stesse attrici, che oggi continuano a portarlo in scena da donne libere o semilibere, ammesse alle misure alternative alla detenzione. Donne che attraverso il teatro hanno l’opportunità di lavorare e abbattere lo stigma sociale legato alla detenzione e ancor più alla detenzione femminile, di fare sentire la propria voce e quella delle loro compagne ancora recluse.

Come suggerisce il titolo, si tratta della riscrittura tragicomica di uno dei più grandi classici shakespeariani. Una storia d’amore e di rabbia, che racconta il carcere con i suoi tempi e i suoi spazi, le sue privazioni, a cominciare dall’affettività negata. Un invito a riflettere su quanto il carcere sia una potente lente d’ingrandimento della società e per scardinare quello che ancora oggi è un tabù dentro e fuori le mura carcerarie: l’amore tra due donne.PUBBLICITÀ

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Per Francesca e le sue attrici, la pandemia di Covid-19 è stata al tempo stesso un ostacolo e un’opportunità. Un ostacolo perché, dopo tanti anni, le restrizioni sanitarie le hanno impedito di entrare nel carcere per portare la sua medicina, il teatro – un’assenza che è stata vissuta come una lacerazione da molte detenute. E allo stesso tempo un’opportunità perché l’impossibilità di entrare dentro ha aumentato la spinta verso il fuori, con il progetto che nel 2021 è diventato un vero e proprio percorso di accompagnamento all’inclusione sociale e lavorativa nella fase del ritorno nella società civile dopo un’esperienza detentiva. Dalla fine dello scorso anno gli studenti del Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università di Roma Tre, futuri educatori coordinati dalla professoressa Elena Zizioli, partecipano con le attrici al laboratorio teatrale e all’allestimento degli spettacoli. Un’esperienza che sta arricchendo anche loro, come emerge dal bellissimo testo riportato qui sotto.

Raggiungo Francesca al telefono all’indomani dello spettacolo, mentre sta correndo verso un altro carcere, la Casa Circondariale di Latina sezione Alta Sicurezza, entrata quest’anno a far parte del progetto. “Hai assistito alla realizzazione di un sogno che dura da nove anni”, mi racconta, quando le chiedo cosa significhi per lei fare questo lavoro. “Spesso si dice ‘il carcere m’ha tolto 10 anni di vita’… io possono dire che il carcere mi ha dato 10 anni di vita in più. Ogni volta che entri in quel luogo, le ore, i minuti, i secondi diventano più densi, più pieni. Hai l’impressione di vivere tanta vita in poco tempo, la tua vita attraverso la vita degli altri. Per me è sicuramente uno strumento per conoscermi meglio. Il carcere è una grande lente d’ingrandimento sull’umanità. Indagando in Ramona e Giulietta sul tema della rabbia, ho dovuto fare i conti con la mia di rabbia. Quando abbiamo scritto Amleta, ci siamo dedicate ai pericoli dell’amore – abbiamo indagato quanto l’amore possa diventare talvolta un pretesto per giustificare tante cose nella vita che facciamo o ci vengono fatte -, e anche io ho dovuto fare i conti sui miei pericoli dell’amore”.

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Fare teatro in carcere, e soprattutto in un carcere femminile, non è facile, ma quando si apre un varco non ci sono limiti alla ricchezza che può entrare. Come nel celebre verso di Leonard Cohen – “c’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce” – così nello spazio di una pena che, secondo la promessa costituzionale, dovrebbe tendere alla rieducazione di chi ha sbagliato, anziché alla sua mortificazione. Per le donne, poi, è tutto più difficile, coerentemente con quanto avviene in ogni ambito della società: maggiori difficoltà dentro, maggiori sfide fuori. Le donne in carcere sono una minoranza: rappresentano appena il 4% della popolazione carceraria. Da un lato questo significa che delinquono meno, dall’altro che sono costrette a vivere in uno spazio che non è neutro, perché pensato al maschile. Temi come l’affettività negata e la separazione dai figli pongono interrogativi di fronte a cui è più semplice, per lo Stato, girarsi dall’altra parte. E poi c’è il mondo fuori, che può rivelarsi persino più duro di quello dentro. Perché è più difficile, per una donna che ha sbagliato, scollarsi di dosso lo stigma sociale associato alla colpa, perdonarsi e perdonare.

Ed è qui che entra in gioco il teatro, come potente strumento di esplorazione e connessione tra il dentro e il fuori. “Per me il teatro è il luogo della verità, dell’espressione di necessità vere”, riflette Francesca, convinta che il carcere sia un luogo dove il teatro riesce a ritrovare la sua essenza. “A volte fuori, distratti da altre dinamiche, si ha più paura della verità, invece in carcere si ha la possibilità di fare il teatro rispettando quella che è la sua natura, in un modo che è più puro, reale, concreto. Allo stesso tempo, il teatro in carcere è anche uno strumento di fare politica, di denunciare le ingiustizie sociali”.

Il laboratorio si sviluppa con degli incontri settimanali nella prima fase del lavoro, dedicata allo studio e all’ascolto. Poi gli incontri si intensificano con la fase di scrittura, per diventare molto più ravvicinati nella fase di allestimento dello spettacolo. Si passa da un incontro a settimana a due, per arrivare nell’ultimo periodo a stare insieme anche 4-5 giorni. Il Covid ha imposto l’interruzione dell’attività teatrale, che tuttora a Rebibbia è sospesa. “Con le nuove regole, le prove vengono fatte in uno spazio all’esterno… l’auspicio è di riprendere al più presto anche dentro, perché il valore di questo lavoro sta proprio nell’andare da dentro a fuori: il dentro è importante per lavorare sulle ragazze dentro e accompagnarle all’esterno”.

È il caso di Bianca, 25 anni, uscita una ventina di giorni fa dal carcere dopo averci passato 4 anni. “Quando si entra in carcere così giovani, la linea tra l’impazzire e il restare sani di mente è molto sottile. Oggi posso dire che il teatro ha salvato la mia vita, è stato il mio salvagente”, racconta al pubblico, gli occhi brillanti per l’emozione.

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Se le detenute di Rebibbia Femminile stanno ancora aspettando che il progetto riparta, quelle dell’Alta Sicurezza di Latina hanno iniziato da poco il loro viaggio. Ad accompagnarle, assieme a Francesca, è Elena Baroglio, attrice professionista e formatrice. “La parte più speciale di questo lavoro, per me, è sentire di poter offrire a queste donne una finestra verso sé stesse e verso il mondo”, racconta Elena. “La sensazione che si ha quando si entra in un carcere è l’eccessiva prossimità dei muri, l’assenza di un orizzonte. Questa mancanza di prospettiva condiziona la psiche, il corpo, le emozioni e l’immaginazione: tutto si restringe. Fare teatro vuol dire spalancare una finestra verso un universo immaginato che in qualche modo prolunga lo spazio chiuso, costretto e claustrofobico del carcere: porte su porte su porte che si chiudono. È un’apertura che avviene piano piano – prosegue Elena – come una matassa che si dipana: un processo che avviene dentro di loro ma anche dentro di me, in un nutrimento reciproco. Mentre quel percorso lo fanno loro, lo rifaccio anch’io: diamo per scontato di essere liberi e di avere lo sguardo aperto, mentre in realtà spesso non è così. Quello che mi colpisce di più in queste donne è la potenza della loro emotività, l’urgenza di raccontare un mondo interiore che è frutto di esperienze spesso tragiche. Quando entrano in contatto con il testo – nello specifico l’Amleta, un’altra riscrittura firmata dalle Donne del Muro Alto – un’alchimia accade, qualcosa si rilassa. Su di loro il teatro ha una funzione davvero catartica e liberatoria, perché è l’occasione di essere viste e apprezzate per le loro emozioni, anche estreme. Per me è toccare un universo, toccare qualcosa che va oltre le mie esperienze, espandendo la mia coscienza, la mia empatia, la mia compassione, nel senso etimologico del termine: comunanza di dolore, ma anche comunanza di amore”.

Quanto ai progetti futuri, Francesca e le sue ragazze amano pensare in grande. “Abbiamo il secondo anno delle Officine di Teatro Sociale con la Regione Lazio e stiamo scrivendo un altro spettacolo. Speriamo nell’arrivo di nuovi bandi e nuovi finanziamenti per coprire i costi della produzione. Quello che ci dà fiducia è la risposta straordinaria che ci arriva da tutte le persone che entrano in contatto con il nostro modo di fare teatro”.

A proposito di fiducia e futuro, non c’è chiusa migliore delle parole di Chiara Ferri, Mihaela Ieremia, Joëlle Fabiola Stephan ed Alessandro De Luca, gli studenti di Roma Tre che hanno partecipato al progetto. Eccole qui:

L’importanza di credere in qualcosa per non sentirsi smarriti. Che sia un Dio, una passione, una persona o un luogo, “prendere parte” fino in fondo con mente e corpo è l’unico modo per ricongiungerci con noi stessi quando tutto il resto vacilla.

Con le loro storie non raccontate, con le azioni di cui scelgono o meno di parlarci, le Donne del Muro Alto, questo progetto, sta toccando anche le nostre vite, divenendo la “causa” in cui credere. Uno strappo di umanità, che mi domando se necessiti veramente di essere ricucito. Non è un’isola felice, né un luogo per sentirsi migliori, ma qui si può imparare la “misura”.

Scoprire emozioni nuove, trovare la condivisione e la realtà nella sua vera forma, senza fronzoli o abbellimenti.

Ma quello che più mi sorprende ogni volta è l’interpretazione di quelle battute che toccano profondamente le attrici, che per loro hanno un significato; ne sento tutta la portata emotiva che come un eco arriva da loro, dalla loro voce, dalle loro movenze.. a me. Penso alla forza che ci voglia per recitare, per chiedersi perché fanno così male, per rivivere emozioni e situazioni passate che come un uragano si schiantano nuovamente sul cuore. Penso a quanta pazienza ci voglia per accettare il dolore, non giudicarsi e non giudicare.

Abbiamo assistito all’ingresso di Bianca, al suo ritorno a teatro da donna libera pochi giorni dopo essere uscita dal carcere, abbiamo visto la forza che i legami riescono a creare.

A volte immersi nella routine quotidiana perdersi è facile, perdere un po’ l’equilibrio, il teatro è per tutti noi dentro e fuori le mura del carcere uno strumento prezioso per ritrovarsi, accettarsi, scoprirsi insieme.

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