Penso che vada veramente la pena, prendersi 10 minuti per leggere questo articolo di Rachel Kushner* su Internazionale del 19 maggio 2019
Non è vero che le prigioni rendono la società più sicura. Anche per questo è arrivato il momento di immaginare alternative più umane e più efficaci. Abolire il carcere è giusto. Sono sempre di più gli attivisti e gli studiosi convinti che mettere le persone in prigione sia il modo sbagliato per contrastare la violenza.
Tra loro c’è Ruth Wilson Gilmore, che negli Stati Uniti si batte per cambiare il sistema. Ruth Wilson Gilmore racconta sempre un aneddoto. Nel 2003 era a Fresno, in California, per una conferenza sulla giustizia ambientale. I partecipanti erano arrivati da tutta la Central valley, la vasta pianura che copre la regione centrale dello stato, per discutere dei gravi rischi che minacciavano le loro comunità, quasi tutti causati da decenni di coltivazioni su scala industriale. Ancora oggi in quella zona si respira l’aria peggiore di tutti gli Stati Uniti e le persone che ci abitano (circa un milione) bevono acqua di rubinetto più tossica di quella di Flint, in Michigan (da anni al centro di uno scandalo sulla contaminazione delle risorse idriche).
Il “programma giovani” della conferenza prevedeva un dibattito in cui i ragazzi parlavano di quello che li preoccupava e poi decidevano insieme cosa fare per promuovere la giustizia ambientale. Gilmore, nota docente di geografia e figura di primo piano del movimento per l’abolizione del carcere, era tra le persone che avrebbero preso la parola. Mentre preparava il suo intervento, qualcuno le ha detto che i ragazzi volevano parlarle.
È andata nella sala dove erano riuniti e si è accorta subito che molti di loro erano di origine ispanica, figli e figlie di braccianti del settore agricolo, per lo più alunni delle scuole medie, quindi abbastanza grandi per avere idee forti e diffidare degli adulti. La guardavano con le sopracciglia aggrottate e le braccia conserte. Gilmore ha capito al volo che ce l’avevano con lei.
“Come va ragazzi?”, ha chiesto entrando. Uno di loro si è fatto avanti e ha detto: “Abbiamo sentito dire che lei è un’abolizionista. Ma davvero vuole chiudere le prigioni?”. Gilmore ha risposto che era vero: voleva chiudere le prigioni. A quel punto i ragazzi le hanno chiesto perché, ma prima ancora che lei potesse rispondere, uno ha detto: “Ma allora che ne facciamo di chi fa cose molto brutte?”. Altri hanno aggiunto: “E a quelli che fanno male alle persone?”.
Lei si è resa conto che quei ragazzi, che venissero da piccoli centri agricoli o dalle case popolari alla periferia di Fresno e di Bakersfield, avevano una consapevolezza innata di quant’è brutto il mondo e che non sarebbe stato facile convincerli. “Capisco come la pensate”, ha risposto. “Ma vi dico una cosa: invece di chiederci se un tizio va messo dietro le sbarre, non sarebbe meglio cercare di capire perché pretendiamo di risolvere certi problemi ripetendo gli stessi comportamenti che provocano quei problemi?”.
Stava invitando i ragazzi a riflettere sul motivo per cui la società sceglie di diventare un modello di crudeltà e di vendetta. Gilmore ha avvertito un senso di gelo: i ragazzini la guardavano come fosse una nuova maestra che giustifica le sue teorie fasulle sostenendo che dice quelle cose per il loro bene. Ma non si è lasciata scoraggiare, e ha spiegato che in Spagna, dove gli omicidi non sono frequenti, in media le persone condannate per questo reato passano in carcere sette anni.
“Coooosa? Solo sette anni?”, ha esclamato uno dei ragazzi. Erano così increduli che cominciavano a sciogliersi un po’, come se avessero trovato qualcosa che li indignava molto più delle idee di Gilmore. Dal rogo alla cella Lei ha continuato raccontandogli che in Spagna, nell’improbabile eventualità che qualcuno decida di risolvere un problema ammazzando un’altra persona, lo stato gli fa perdere sette anni della sua vita durante i quali è costretto a pensare a quello che ha fatto e a cercare d’immaginarsi come si comporterà una volta uscito di prigione.
“Questo modo di regolare la faccenda”, ha detto Gilmore, “ci dice che dove la vita è preziosa, è preziosa sul serio”. In altre parole, ha aggiunto, in Spagna hanno deciso che siccome la vita ha un valore enorme, è meglio non comportarsi in modo punitivo, violento e distruttivo nei confronti di chi fa del male al prossimo.
“Questo dimostra che, per chi è alle prese con i problemi della vita quotidiana, comportarsi in modo violento e distruttivo non è una soluzione”. I ragazzi hanno reagito con uno scetticismo espresso da sguardi diffidenti. Gilmore ha continuato a parlare, convinta dei suoi argomenti maturati in tanti anni di riflessione come studiosa e attivista, ma quel pubblico era difficile da convincere: i ragazzi le hanno detto che ci avrebbero pensato e l’hanno liquidata. È uscita dall’aula sentendosi sconfitta.
Ma alla fine della giornata, quando dovevano presentare le loro conclusioni alla conferenza, i ragazzi hanno annunciato, con grande sorpresa di Gilmore, che le loro preoccupazioni più grandi erano tre: i pesticidi, la polizia e le carceri. “Stavo lì seduta ad ascoltare quei ragazzi e il mio cuore ha avuto un sussulto”, racconta. “Il movimento abolizionista è olistico, nel senso che considera i rapporti tra le persone e l’ambiente nel loro insieme.
Per questo temevo che parlandogli degli spagnoli potessero concludere che fuori dagli Stati Uniti le persone sono semplicemente migliori o più gentili, che quello che succede altrove non conta per le loro vite. E invece avevano assimilato il concetto generale che avevo cercato di trasmettergli, cioè il valore della vita. E quindi si sono fatti una domanda: “Perché abbiamo ogni giorno l’impressione di vivere in un posto dove la vita non è preziosa?”. Nel tentativo di trovare una risposta, hanno capito cos’è che li rende vulnerabili”.
Il movimento per l’abolizione del carcere può apparire provocatorio e intransigente: per capire cos’è bisogna concentrarsi sui dettagli. Per Gilmore, che lotta per questa causa da più di trent’anni, è un obiettivo di lungo periodo e allo stesso tempo un programma politico concreto, fatto di investimenti pubblici in tutti gli aspetti indispensabili per una vita produttiva e libera dalla violenza: lavoro, istruzione, edilizia popolare, sanità. Gli abolizionisti non si chiedono: “Cosa faremo con le persone violente in un eventuale futuro senza carceri?”. Piuttosto si concentrano su come ridurre le disuguaglianze e dare alle persone le risorse di cui hanno bisogno, ben prima del momento ipotetico in cui – sono parole di Gilmore – “finiscono per combinare qualche casino”.
Nel 1885 lo scrittore britannico William Morris scriveva: “Ogni epoca storica ha avuto le sue speranze. Queste speranze guardano a qualcosa che va oltre la vita di una data epoca e sono un tentativo di proiettarsi nel futuro”. Morris era un proto-abolizionista: nel suo romanzo utopico Notizie da nessun luogo (Garzanti 1995) non esistono carceri, e questo è considerato l’ovvio prerequisito di una società felice.
Al tempo di Morris il carcere, come forma più diffusa di punizione, era relativamente nuovo in Inghilterra, dove storicamente chi commetteva dei reati passava un breve periodo in prigione prima di essere trascinato fuori e fustigato nella pubblica piazza. Come ricorda Angela Davis nel libro Aboliamo le prigioni? (minimum fax 2009), anticamente il common law britannico prevedeva che per il reato di petty treason (cioè quando un subordinato tradiva un superiore) il colpevole venisse bruciato vivo, ma nel 1790 c’era stata una riforma che aveva introdotto la pena dell’impiccagione. In Europa le riforme dell’ordinamento giudiziario approvate sulla scia dell’illuminismo hanno portato gradualmente al rifiuto delle punizioni corporali: invece di essere punito immediatamente, il condannato veniva recluso per un periodo di tempo fissato dalla legge.
Tra le proposte del cosiddetto movimento penitenziario che si diffuse all’inizio dell’ottocento nel Regno Unito e negli Stati Uniti c’era l’adozione di metodi punitivi più umani. In altri termini, l’introduzione del carcere era una riforma. Tuttavia, anche se nelle sue origini filosofiche il carcere doveva essere un’alternativa umana alle percosse, alla tortura o alla morte, con il passare del tempo si è trasformato in un elemento stabile della vita moderna, anche se nessuno, neanche i suoi sostenitori e gli amministratori del sistema penitenziario, lo considera particolarmente umano.
Oggi nelle carceri statunitensi ci sono più di due milioni di detenuti, sono soprattutto neri o appartenenti ad altre minoranze, e quasi tutti vengono da comunità povere. Il sistema carcerario statunitense ha violato ripetutamente i diritti umani e ha mancato il suo obiettivo di riabilitazione, ma non solo: non è dimostrato che abbia disincentivato la criminalità né che abbia reso la società più sicura.
L’idea di riformare il carcere ha cominciato a prendere piede tra i politici statunitensi dopo l’impennata delle pene detentive cominciata nel 1980. Ma gli abolizionisti sostengono che le tante riforme attuate negli ultimi decenni non hanno fatto altro che rafforzare il sistema. Per fare un esempio, tutti gli stati americani che hanno abolito la pena di morte hanno introdotto l’ergastolo senza condizionale, che molti considerano una pena di morte eseguita con altri mezzi. Lo stesso discorso vale per le riforme recenti.
La prima riforma delle carceri federali adottata da dieci anni a questa parte (il First step act, sostenuto da entrambi i partiti e promulgato dal presidente Donald Trump alla fine del 2018), prevede la scarcerazione di appena settemila detenuti sui due milioni e 300mila totali. E si applica solo alle prigioni federali, che ospitano meno del 10 per cento della popolazione carceraria.
Il punto, secondo Gilmore, è che non bisogna cercare di “migliorare” il sistema carcerario, ma impegnarsi a livello politico per ridurne la portata e le conseguenze, per esempio fermando la costruzione di nuove prigioni e chiudendo un po’ alla volta quelle esistenti. Un obiettivo che richiede un faticoso lavoro di organizzazione dal basso e la volontà di usare i fondi statali non per punire ma per aiutare le comunità più vulnerabili.
Scuole come prigioni – Fin dalla nascita del sistema attuale, chi critica l’istituzione carceraria si è sempre chiesto se le prigioni siano davvero la soluzione più efficace per risolvere i problemi della società. Nel 1902 Clarence Darrow, un celebre avvocato statunitense, disse davanti ai detenuti del carcere della contea di Cook, a Chicago: “Il carcere non dovrebbe esistere, perché non raggiunge lo scopo che dice di perseguire”.
Tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta negli Stati Uniti il movimento abolizionista raccolse consensi tra persone appartenenti a gruppi diversi tra loro: studiosi, politici (anche moderati), parlamentari federali e statali ed esponenti di varie fedi religiose. Nei paesi scandinavi il movimento abolizionista non ha ottenuto la soppressione definitiva delle carceri ma ha permesso di passare al “carcere aperto”, che punta al reinserimento delle persone nella società e che ha fatto calare di molto i tassi di recidiva.
Dopo la rivolta scoppiata nel 1971 nel penitenziario di Attica, nello stato di New York, in cui morirono 43 persone, negli Stati Uniti si diffuse la convinzione che servissero cambiamenti drastici. Nel 1976 Fay Honey Knopp, una quacchera che gestiva una cappella carceraria, pubblicò un opuscolo intitolato Invece del carcere: manuale per gli abolizionisti. Tre gli obiettivi principali: moratoria sull’edificazione di nuovi penitenziari, liberazione dei detenuti e superamento della criminalizzazione e dell’uso del carcere come mezzo di correzione.
Le proposte degli abolizionisti per raggiungere quegli obiettivi somigliano in modo sorprendente a quelle (mai realizzate) del programma di great society voluto dal presidente Lyndon Johnson negli anni sessanta: creare milioni di nuovi impieghi, combattere le discriminazioni sul posto di lavoro, desegregare le scuole, estendere la rete di protezioni sociali, costruire nuovi alloggi. Ma in molte città si cominciava a sentire l’impatto devastante della crisi del settore industriale, un problema che non è stato affrontato con programmi di tutele sociali ma con nuove forme, anche severe, di criminalizzazione.
Alla fine degli anni novanta, con l’aumento delle carceri e della popolazione carceraria, è emerso un nuovo movimento per fermare la costruzione di penitenziari. Ha mosso i primi passi in California. Tra i leader c’erano Gilmore e Angela Davis, che nel 1998 hanno fondato, insieme ad alcuni attivisti di San Francisco, Critical resistance, un’organizzazione che ha fatto dell’abolizione del carcere il suo principio cardine. Cinque anni dopo è nata la Californians united for a responsable budget (Curb), per combattere la costruzione di nuove carceri.
La Curb si è messa in luce con alcune campagne di successo che hanno bloccato la creazione di nuove prigioni per un totale di 140mila nuovi posti letto solo in California, uno stato dove i detenuti sono circa duecentomila. Tutte le campagne a cui Gilmore ha partecipato sono partite da una coalizione di persone che rischiavano di subire le conseguenze negative di un nuovo penitenziario.
Gilmore non ha semplicemente seguito la strategia di combattere direttamente l’istituzione carceraria sperando nell’adesione di altri, ma al contrario ha cercato contatti con gruppi che si erano già mobilitati. Che si trattasse di ambientalisti da convincere sul fatto che una nuova prigione avrebbe danneggiato la biodiversità, o di membri di comunità locali preoccupati per l’impatto di un edificio carcerario sulle falde acquifere, “il nostro principio è sempre stato mettere in contatto organizzazioni già esistenti”, mi spiega Gilmore. “Bisogna parlare con la gente e capire cosa vuole”.
Un esempio: nel 2004 gli elettori della contea di Los Angeles dovevano votare su un provvedimento che prevedeva l’assunzione di 5mila tra nuovi agenti di polizia e vicesceriffi e l’ampliamento del carcere cittadino. Gilmore ha contribuito a organizzare una campagna nei quartieri di South Central e di East Los Angeles: ha organizzato incontri con i cittadini, ha parlato con loro incoraggiandoli a fare domande e a esprimere i loro bisogni. Le esigenze dei residenti di quei quartieri coincidevano con quelle dello sceriffo della contea di Los Angeles e del dipartimento di polizia? Volevano davvero più agenti nelle loro comunità?
La risposta era no, e il provvedimento è stato bocciato alle urne. “Il lavoro organizzativo è stato lento e faticoso, ma alla fine abbiamo vinto”. Poco dopo, quando il governo della California ha deciso di costruire carceri “più attente ai bisogni di genere”, gli abolizionisti hanno messo in piedi un’organizzazione insieme alle detenute dei penitenziari femminili dello stato. Circa 3.300 detenuti maschi e femmine hanno firmato una petizione, preparata dall’associazione Justice now, per opporsi alla prospettiva di essere spostati nei nuovi penitenziari separati. Un elenco delle detenute e dei detenuti firmatari (un rotolo di carta lungo sette metri e mezzo) è stato presentato al parlamento della California, provocando l’imbarazzo dei deputati della commissione bilancio per l’edilizia carceraria. La proposta iniziale è stata respinta.
“Non si può dire che tutte le persone che avevano partecipato a quelle campagne fossero abolizioniste”, dice Gilmore. “Ma gli abolizionisti si sono impegnati per consentire a diverse tipologie di detenuti con bisogni diversi di decidere in prima persona che quella di costruire nuove carceri era una pessima idea”.
Un nuovo corso Nel 1994, quando si è iscritta alla Rutgers University del New Jersey, Ruth Wilson Gilmore aveva 43 anni ed era un’attivista navigata, con un’istruzione informale ma a tutto campo ottenuta seguendo studiosi come Cedric Robinson, Barbara Smith e Mike Davis, l’autore di Città di quarzo (Manifestolibri 2008), che ha introdotto l’espressione “complesso penitenziario-industriale”. All’inizio Gilmore pensava di prendere un dottorato di ricerca in pianificazione urbanistica alla Rutgers: le sembrava la cosa più vicina a quello che voleva fare, cioè approfondire i problemi sociali del mondo che abbiamo costruito. Ma poi ha conosciuto Neil Smith, un influente geografo marxista, e ha deciso di iscriversi a geografia.
Ha scoperto che quella disciplina le permetteva di analizzare i rapporti tra città e zone rurali e di riflettere su come la vita sociale è organizzata in sistemi di competizione e cooperazione. Quattro anni dopo ha preso il dottorato e poi è andata a insegnare all’università di Berkeley, in California. Voleva che il nome del suo primo corso fosse Geografia carceraria, ma il capo dipartimento non era d’accordo e le ha proposto: “Perché non lo chiami ‘Razza e criminalità’?”.
Lei ha risposto che le sue lezioni non riguardavano né la razza né la criminalità (il capo dipartimento sostiene che le cose siano andate diversamente). In ogni caso Gilmore l’ha avuta vinta, inventando di fatto il concetto di geografia carceraria, un ambito di ricerca che fa luce sui complessi legami tra paesaggio, risorse naturali, economia politica e infrastrutture, ma che tocca anche temi come l’operato della polizia, l’incarcerazione, la segregazione e il controllo delle comunità. Negli anni ha influenzato il modo di pensare di molti geografi, oltre che generazioni di studenti e attivisti.
Ho avuto una dimostrazione dell’abilità di Gilmore nell’affrontare la questione delle carceri in una chiesa di Chicago, a un incontro con Angela Davis moderato da Beth Richie, docente di diritto all’università dell’Illinois. Le tre intellettuali nere, radicali e femministe hanno preso posto su enormi e decorate cattedre vescovili.
All’incontro, organizzato da Critical resistance, c’erano molti attivisti del South Side, la zona povera e a maggioranza nera di Chicago. In sala c’erano vibrazioni positive, ma quando Davis ha sollevato l’argomento delle carceri private, l’atmosfera si è caricata di tensione. Oggi è sempre più diffusa l’idea che il “vero” problema dell’incarcerazione di massa sia il fatto che ci sono carceri gestite da aziende.
Ma chiunque affronti l’argomento con serietà sa che non è così. Basta dare un’occhiata ai numeri: il 92 per cento dei detenuti statunitensi si trova in strutture finanziate con fondi pubblici e gestite dallo stato. In pratica, anche se domani venissero chiuse tutte le prigioni private, il numero di detenuti che tornerebbero liberi sarebbe molto basso. Nel corso del dibattito Davis ha ammesso che è sbagliato concentrarsi troppo sulle prigioni private, ma poi ha detto che è importante puntare i riflettori su questo tema per far capire il ruolo del carcere nel sistema capitalistico.
Gilmore ha risposto dicendo che non sono state le prigioni private a causare l’incarcerazione di massa: “Le aziende naturalmente non sono buone né innocenti, sono semplicemente dei parassiti del sistema”. Poi si è lanciata in una dissertazione sulla differenza tra la ricerca del profitto che muove le aziende e il modo in cui sono finanziati i penitenziari pubblici. Ha spiegato che gli enti governativi non fanno profitti, quindi hanno bisogno di entrate, e le agenzie statali sono in competizione tra di loro per assicurarsi i fondi disponibili. In una situazione di austerità, i finanziamenti al welfare vengono tagliati, e i fondi disponibili finiscono alla polizia, ai vigili del fuoco e alle istituzioni carcerarie.
A quel punto, altre agenzie cercano di ottenere fondi imitando la polizia. Il dipartimento dell’istruzione, per esempio, capisce che è più facile avere soldi dallo stato per i metal detector che per altre cose. E nel frattempo le carceri ottengono fondi che tradizionalmente andavano altrove (i soldi per l’assistenza sanitaria pubblica, per esempio, sono convogliati sui “servizi di salute mentale” delle prigioni). Insomma, spiega Gilmore, “se segui i soldi alla fine non ti sorprendi di quanto guadagnano i privati ma di quante persone lavorano per il dipartimento degli istituti penitenziari.
In California le guardie carcerarie sono la lobby più potente: sono un’unica categoria, con un unico datore di lavoro, quindi per loro è facile organizzarsi. E infatti sono in grado di decidere le elezioni a tutti i livelli, dai procuratori distrettuali fino al governatore dello stato”. Nel bilancio della California per il 2019 sono previsti 15 miliardi e mezzo per il sistema carcerario. Solo gli stipendi dei dipendenti assorbiranno il 40 per cento di quella somma (tra il 1982 e il 2000 le autorità hanno costruito 23 nuove prigioni e la popolazione carceraria nello stato è aumentata del 500 per cento).
Quindi stiamo parlando non di un’impresa a scopo di lucro ma di un’industria sovvenzionata dallo stato. La casa del sindacato A sentire Gilmore, le prigioni non sono il frutto del desiderio di qualche “cattivo” di sbattere dentro i poveri e i neri. “Non è che una mattina lo stato si sia svegliato dicendo: ‘Facciamo un dispetto ai neri’. L’esito non era scontato: perché andasse com’è andata sono dovute succedere tante altre cose”.
E infatti la storia che lei racconta è popolata da una lunga serie di personaggi e avvenimenti: gli agricoltori che hanno affittato o venduto allo stato i terreni su cui sono state costruite le prigioni; il sindacato delle guardie carcerarie; i politici dei vari stati; le amministrazioni comunali; la siccità, che ha fatto crollare il valore di terreni su cui poi sono stati edificati i penitenziari; la crisi economica che ha portato a enormi centri urbani deindustrializzati; e infine il destino dei discendenti di quelli che emigrarono nella California meridionale durante e dopo la seconda guerra mondiale per lavorare nelle fabbriche. Insomma, la tesi di fondo di Gilmore è che la costruzione di carceri era tutt’altro che inevitabile. Ma più prigioni si costruivano e più lo stato diventava bravo a riempirle, anche quando la criminalità era in calo.
Il suo libro Golden gulag, pubblicato nel 2007, è considerato un’opera fondamentale da docenti universitari e attivisti. Alcuni passaggi possono scoraggiare per il livello di tecnicismo, ma di persona Gilmore è diretta e accessibile. Ha un modo di fare caloroso ed estroverso, ride spesso e lega bene con tutti. Parla in modo chiaro, anche se respinge ogni semplificazione.
Ti fa riflettere sui legami tra le grandi strutture che stanno dietro la costruzione delle carceri, ma anche tra gruppi di persone che potrebbero lavorare insieme per cambiare le cose, per esempio gli ambientalisti e i sindacati degli insegnanti. È così che nel 1999 ha messo insieme un gruppo formato sia da braccianti sia da imprenditori agricoli per fermare la costruzione di un carcere nella contea di Tulare, in California, ed è riuscita a convincere la California state employees association (Csea), un sindacato di dipendenti pubblici che allora aveva più di 80mila iscritti, ad appoggiare la campagna contro il nuovo carcere di Delano.
“Le guardie non credevano ai loro occhi: tutti quei dipendenti pubblici che si schieravano contro altri dipendenti pubblici. Eravamo sorpresi anche noi”, racconta Gilmore. La Csea ha capito una cosa, spiega: una guardia carceraria era un dipendente statale che per avere un lavoro doveva avere un carcere; ma poi c’erano anche i fabbri, le segretarie, i custodi e altri impiegati pubblici che non dovevano per forza lavorare in un istituto penitenziario, ma che avrebbero finito per farlo se tutte le risorse fossero andate al sindacato dei secondini.
Alla fine il carcere di Delano è stato comunque aperto. Ma secondo Gilmore c’è voluto molto più tempo di quanto ne sarebbe servito se non ci fosse stata la campagna di protesta degli abolizionisti. Racconta: “Siamo arrivati al punto che i parlamentari statali ci dicevano: ‘Fateci costruire solo questo e poi basta’. Erano stremati. All’inaugurazione il capo del dipartimento delle carceri ha detto: ‘Probabilmente questa sarà l’ultima prigione che apriremo nello stato’”. Mike Davis mi ha detto: “Per capire Ruthie, devi capire da che ambiente proviene e che famiglia ha avuto”. Gilmore è nata nel 1950 ed è cresciuta con i tre fratelli a New Haven, nel Connecticut, in una famiglia che lei stessa definisce “afrosassone”.
“Avevamo la determinazione tipica dei puritani”, racconta Gilmore: “Non potevo commettere errori perché tutto ciò che facevo era per i neri”. La famiglia Gilmore frequentava quella che allora era la chiesa congregazionale di Dixwell avenue, molto legata al movimento per i diritti civili. “Il principio della chiesa era che tutti dovevano imparare il più possibile”, ricorda. La domenica a catechismo studiavano la storia dei neri e gli insegnanti li incoraggiavano a farsi delle domande. “Quando dicevi una cosa, qualsiasi cosa, la regola era che dovevi spiegare come facevi a saperla”. Suo padre, Courtland Seymour Wilson, lavorava in una fabbrica di armi Winchester, dove era un importante leader sindacale.
Quando era bambina, le uniche occasioni in cui Gilmore vedeva entrare dei bianchi in casa erano le riunioni sindacali. Lei si sedeva sulle scale ad ascoltare quegli uomini, che fumavano e discutevano fino a tarda notte, e li sbirciava dalla finestra quando uscivano. “Parcheggiata fuori c’era sempre un’auto da cui non scendeva mai nessuno, e se ne andava quando se ne andavano gli altri”, ricorda. Quando ha saputo dell’agenzia Pinkerton, assoldata per spiare i lavoratori delle miniere, ha capito che a bordo di quell’auto parcheggiata fuori casa dovevano esserci le spie della Winchester.
Courtland Seymour Wilson incoraggiava Ruthie, che già da piccola era portata per lo studio. Nel 1960 una scuola privata che aveva deciso di desegregare le sue classi prima che fosse costretta a farlo per legge, mandò delle lettere alle chiese nere più rispettate chiedendo di segnalare le bambine “idonee” a iscriversi. Gilmore fece l’esame di ammissione e lo superò. Fu la prima alunna nera della scuola, nonché una delle poche che venivano da una famiglia della classe operaia. Era sempre triste, ma imparava molto.
Nel 1968 s’iscrisse allo Swarthmore college, in Pennsylvania, dove si interessò alla politica del campus. Era l’anno delle occupazioni. Lei e un gruppo di altri studenti neri, tra cui la sorella minore di Angela Davis, Fania, provarono a convincere la direzione ad accogliere altri studenti neri, e una volta anche Angela Davis andò a Swarthmore per dare qualche consiglio agli studenti. “Sembrava incredibilmente matura e preparata”, ricorda Gilmore. “Aveva i modi tipici dell’Alabama, parlava lentamente e con tono deciso, e portava la minigonna”.
Agli studenti Davis disse: “Prima cercate di capire ciò che volete e poi non mollate la presa. Fatevi sentire”. Dopo Swarthmore Gilmore s’iscrisse a Yale e si lasciò assorbire completamente dallo studio. “Ogni anno trovavo un insegnante che mi apprezzava davvero e s’interessava a quello che scrivevo e pensavo”, racconta. Uno era George Steiner, e un altro il critico cinematografico e teatrale Stanley Kauffmann.
Alla fine si laureò con una tesi sul teatro, poi partì per un viaggio senza meta per tutti gli Stati Uniti, che la portò nel sud della California. Lì incontrò Craig, si sposarono e dal 1976 si dedicano insieme alla militanza politica. Con il tempo Gilmore ha capito che certe convinzioni a cui la gente si aggrappa non solo sono false ma lasciano spazio a posizioni politiche che, invece di puntare a riforme fondamentali e significative, sostengono interventi non incisivi o poco mirati. Ecco un elenco di convinzioni che lei ha smontato: l’idea che un numero significativo di persone in prigione sia stato condannato per reati non violenti legati alla droga; il fatto che il carcere sia una prosecuzione della schiavitù con altri mezzi e, per estensione, che la maggioranza dei detenuti sia formata da neri.
Per Gilmore, come per molti altri studiosi e attivisti, dire che le prigioni sono piene di criminali non violenti è un’affermazione discutibile. In tutti gli Stati Uniti i detenuti per reati legati alla droga sono meno di uno su cinque, eppure la convinzione che siano molti di più si è diffusa a macchia d’olio, sulla scia della straordinaria popolarità di The new Jim Crow, il libro di Michelle Alexander sugli effetti devastanti della guerra alla droga. Quei casi in realtà sono gestiti principalmente dal sistema carcerario federale, che ha dimensioni relativamente ridotte. Idee da smontare È facile indignarsi per le leggi draconiane che puniscono i reati non violenti e per i pregiudizi razziali. Alexander li elenca in modo avvincente e persuasivo.
Tuttavia, la maggior parte dei detenuti nelle carceri statali e federali è stata condannata per reati definiti violenti, tra cui c’è di tutto, dal possesso di armi da fuoco all’omicidio. Invece di affrontare questa realtà scomoda, molti si concentrano sui “relativamente innocenti”, come li chiama Gilmore: tossicodipendenti o vittime di false denunce, che rappresentano solo una piccola percentuale dei detenuti.
Ho sollevato l’argomento con Alexander, che ha risposto: “Penso che l’incapacità di alcuni studiosi come me di affrontare apertamente il problema della violenza dia quasi l’impressione che approviamo l’incarcerazione di massa delle persone violente. Quelli di noi che lottano per mettere fine al sistema della criminalizzazione di massa devono cominciare a parlare di più di violenza, e non solo dei danni che provoca, ma anche del fatto che non si risolverà mai costruendo altre gabbie”.
Tuttavia, negli Stati Uniti è difficile parlare di carcere senza partire dal presupposto che esiste una popolazione che deve stare in carcere. “Quando si sostiene la tesi dell’innocenza relativa per mostrare quant’è triste che i relativamente innocenti siano sottoposti alle forze della violenza dello stato come fossero criminali, si perde di vista un elemento importante”, sostiene Gilmore. “Ci dovremmo chiedere, per esempio, se le persone criminalizzate debbano davvero sottostare alle forze della violenza organizzata.
O se quest’ultima è proprio necessaria”. Un’altra idea sbagliata ma molto diffusa, secondo Gilmore, è che i detenuti siano in maggioranza neri. Oltre alla pericolosità di associare i neri alle prigioni, questa convinzione non tiene conto delle cifre della demografia delle prigioni, che cambia da uno stato all’altro e da un periodo all’altro. I neri sono senz’altro la popolazione più colpita dall’incarcerazione di massa (gli afroamericani rappresentano il 12 per cento della popolazione statunitense e il 33 per cento di quella carceraria), ma è anche vero che, secondo il Bureau of justice statistics, le persone di origine ispanica sono il 23 per cento dei detenuti e i bianchi sono il 30 per cento.
Gilmore ha sentito dire che le leggi sulla droga saranno modificate perché oggi l’epidemia di oppioidi sta colpendo i bianchi delle zone rurali. Una favola che la manda fuori di testa: “La gente dice: ‘Figuriamoci se mettono dentro i bianchi’. E invece è proprio così: anche i bianchi finiscono dentro”. Se le persone si convincono che le prigioni siano popolate prevalentemente da neri, saranno anche più disposte a credere che il carcere fa parte di un complotto per schiavizzarli di nuovo.
E questa, ammette, è una tesi che implica due verità fondamentali: che le lotte e le sofferenze dei neri sono al centro della storia dell’incarcerazione di massa; e che il carcere, come la schiavitù, è una catastrofe per i diritti umani. Ma soprattutto, l’idea del carcere come una versione moderna di segregazione serve a far sì che la gente si preoccupi per una popolazione che altrimenti ignorerebbe.
“I colpevoli meritano di essere ignorati, ma l’incarcerazione di massa è un fenomeno così clamoroso che la gente comincia a pensare a come prendersi cura di chi ha commesso un reato. E per farlo deve collocare queste persone in una categoria che le rende degne della cura altrui. Questa categoria è la schiavitù”. Chi ruba qualcosa o aggredisce qualcuno va in carcere, dove non riceve nessuna formazione professionale, nessun rimedio per i suoi traumi e problemi, nessuna possibilità di recupero. “La realtà della prigione, e della sofferenza nera, è straziante come il mito del lavoro in schiavitù”, osserva Gilmore. “Perché mai abbiamo bisogno di fare questa associazione sbagliata per capire quanto è orribile?”.
Gli schiavi erano costretti a lavorare per massimizzare i profitti dei proprietari di piantagioni, che si arricchivano con il commercio del cotone, dello zucchero e del riso. Il carcere, aggiunge Gilmore, è un’istituzione governativa, non è un’impresa e non si basa sul lucro. Potrà sembrare un tecnicismo, ma le distinzioni tecniche contano, perché non si può accusare il sistema carcerario di essere schiavista se le carceri non schiavizzano i detenuti.
Come ha detto l’attivista ed ex detenuto James Kilgore, “il problema più pressante per i detenuti non è lo sfruttamento del loro lavoro. È il fatto di essere in gabbia senza poter fare granché e senza beneficiare di programmi o risorse che li mettano in condizione di farcela nella vita quando escono di prigione”. Secondo stime del National employment law project, settanta milioni di statunitensi hanno precedenti penali, un fatto che spesso gli impedisce di trovare un lavoro, così molti finiscono nell’economia informale, che negli ultimi vent’anni ha assorbito un’enorme quota di manodopera.
“Giardiniere, assistente sanitario a domicilio, lavori in nero e senza contributi”, spiega Gilmore. “Persone che hanno un posto nell’economia, ma non hanno nessuno controllo sul loro lavoro. Dovremmo pensare non solo alle enormi dimensioni del problema, ma anche alle enormi potenzialità che offre. Se così tanti lavoratori potessero beneficiare di un’organizzazione che li inserisse in una solida formazione, sarebbero in condizione di avanzare rivendicazioni nei confronti di chi gli paga il salario e delle comunità in cui vivono. È uno degli obiettivi a cui dovrebbe condurci il pensiero abolizionista”.
Perdona e dimentica – Il termine “abolizione” rimanda volutamente al movimento per l’abolizione della schiavitù. “Ci vorranno generazioni per portare a termine questo lavoro e non credo che vivrò abbastanza per veder cambiare le cose”, mi dice l’attivista nera Mariame Kaba. “Ma so anche che i nostri antenati, che erano schiavi, non avrebbero mai potuto immaginare che vita faccio io oggi”. Kaba, Davis, Richie e Gilmore mi hanno detto – usando quasi le stesse parole – che non è un caso se alla testa del movimento per l’abolizione del carcere ci sono donne nere. Davis e Richie hanno usato l’espressione “femminismo abolizionista”. Secondo Davis, “storicamente le femministe nere hanno immaginato cambiamenti della struttura sociale che andrebbero a vantaggio non solo delle nere ma di tutti”.
Alexander mi ha detto: “Il fatto che oggi tante persone vogliano abolire il carcere dimostra che sia negli ambienti universitari sia nei circoli di base si è fatto un lavoro enorme. Ma se l’espressione ‘abolizione del carcere’ fosse usata dalla Cnn tanta gente storcerebbe il naso. Gilmore ha sempre detto che il suo movimento non vuole solo chiudere le prigioni, ma è una filosofia del cambiamento”.
Quando Gilmore si trova di fronte una platea contraria all’abolizione del carcere – persone convinte che lei voglia ingenuamente sostenere che la gente va in prigione solo perché ha fumato un po’ d’erba – risponde che un suo cugino è stato assassinato e che a lei non interessano quelli che fumano erba. Tuttavia, con me ammette: “In tutta questa storia c’è una cosa che non si può negare: le persone sono stanche del male, del dolore e dell’ansia”. Mi descrive le sue conversazioni con persone contente che i mariti o i padri violenti siano stati allontanati da casa.
Della sua esperienza personale con la violenza, ne parla in tono più filosofico, anche se la ferita per la perdita del cugino non sembra ancora rimarginata. “Ne ho parlato con mia zia. Quando le ho detto: ‘Perdona e dimentica’, lei ha risposto: ‘Perdona ma non dimenticare mai’. Aveva ragione: le circostanze in cui è avvenuto quel fatto devono cambiare in modo che cose simili non possano ripetersi”. Per Gilmore, “non dimenticare mai” significa che il problema non si risolve con la violenza di stato o con la violenza personale, ma cambiando le condizioni in cui si verifica la violenza.
Tra i progressisti americani circola un’idea quasi cristiana di empatia, e cioè che dobbiamo trovare il modo di prenderci cura di chi ha fatto del male. Per Gilmore è poco convincente. Quando i bambini di Fresno l’hanno provocata sull’abolizione del carcere, non gli ha chiesto di provare empatia per chi aveva fatto loro del male o avrebbe potuto farglielo.
Ha chiesto perché, come individui e come società, crediamo che il modo per risolvere un problema sia “ammazzarlo”. In realtà, gli stava chiedendo se secondo loro la punizione era logica e se funzionava. E ha lasciato che fossero loro a trovare la risposta.