“Giustizia, vendetta, perdono. Questi sono i temi universali dell’Oscura immensità… Di fronte a quella domanda: Chi deve perdonare chi si è macchiato di un crimine? – ognuno è costretto a prendere posizione, a non eludere le domande che carnefice e vittima pongono con la forza disarmante dei destini contrapposti e ineluttabili”, scrive Massimo Carlotto, autore del romanzo L’oscura immensità della morte e della sua riduzione teatrale rappresentata questa settimana al Teatro Nuovo.
Sono temi, per noi, di fondamentale interesse. Ma un volontario che ha visto lo spettacolo ne è uscito deluso.
“Per diversi motivi”, spiega, “il primo dei quali è l’assenza di scavo, di approfondimento nella complessità delle emozioni, delle inquietudini, delle ricerche, delle ragioni delle due parti. Invece di essere spinto a capire più di quanto già sapeva, lo spettatore si trova di fronte ad una contrapposizione che non va oltre le dichiarazioni dell’uno e dell’altro e il racconto dei rispettivi comportamenti, altamente improbabili e a loro volta non risultato dello sviluppo di un dramma interiore ma semplicemente detti, capitati ad un certo punto.
Non c’è spessore di argomentazioni nella domanda di schierarsi tra vendetta, perdono, forse giustizia, forse pietà.
Il racconto della vita carceraria è un elenco di banalità, un copia-incolla preso dalle descrizioni superficiali di chi comunque, come l’autore, ne ha fatto esperienza, ma senza nessuna rielaborazione. La figura del rapinatore condannato all’ergastolo che, per ottenere una sospensione della pena e aspettare in libertà la morte di cancro, già diagnosticata, chiede strumentalmente dopo quindici anni il perdono della vittima, alla quale aveva ucciso moglie e figlio, è un po’ più verosimile e argomentata. Ma possibile che in quindici anni non siano intervenute modificazioni di coscienza, ripensamenti, sospetti di altri valori, addirittura di fronte ad un’attesa di morte?
Ecco allora che il rovesciamento della conclusione, che non dico, sembra solo una stravagante, arbitraria invenzione, senza rapporto con una qualche tempesta interiore che avrebbe dovuto essere rappresentata.
E’ ancora peggio la fissità della vittima, nella sua vendetta senza dubbi, senza turbamenti e spinta a conseguenze assolutamente inverosimili. Dov’è il conflitto, dov’è la drammaturgia?
Assassino e vittima restano nel tempo due mondi separati, due fotografie immobili che non comunicano. Non solo personalmente, ma soprattutto nel senso che la rappresentazione non fa interagire le rispettive visioni; quelle sono e quelle continuano ad essere. Nessun aiuto allo spettatore che vorrebbe spingere più avanti la propria consapevolezza.
Tanto più dispiace in questi anni in cui si va scoprendo un’idea di giustizia che vorrebbe rendere responsabili, introdurre il dialogo, la mediazione, la riparazione, superare la fissità della vendetta per il bene della vittima stessa, ritrovare un senso nei tentativi di riconciliazione.
A meno che non pesi, a partire dal romanzo, la vicenda personale dell’autore, che qualcosa che non può più essere detto, e quindi di congelato, renda immobile tutta la violenza che contiene.
Devo aggiungere un secondo elemento di delusione: l’incapacità di scrittura teatrale. Il testo parlato suona sistematicamente falso perché non corrisponde a quello che può essere detto ma a quello che si legge. E anche come testo scritto è mediocre, sciatto, senza aperture creative. Questo mi ha stupito perché, non avendo ancora letto niente di Carlotto ma sapendo quanto è apprezzato, pensavo che possedesse almeno un’originalità di stile.
Questa debolezza ricade sulla recitazione, soprattutto di Giulio Scarpati nel ruolo della vittima, che ha più l’andamento di una lettura. Decisamente meglio, anche se un po’ sforzato, Claudio Casadio, l’ergastolano.”
Non salva proprio niente dello spettacolo il nostro volontario?
“Salvo un espediente efficace: davanti alla scena è calato un velo trasparente, di cui non ci si accorge, ma sul quale vengono all’occorrenza proiettate immagini di notevole effetto suggestivo”.
Almeno questo.
Ma un’altra volontaria della Fraternità ha riportato un’impressione molto diversa.
“Ho assistito anch’io allo spettacolo”, dice, “e vorrei rendervi partecipi un po’ del mio punto di vista. Premetto che mi sono avvicinata da poco al mondo “carcere”e quindi la mia prospettiva probabilmente è meno coinvolta. Personalmente, lo spettacolo mi è piaciuto molto, l’ho trovato intenso e ricco di emozioni. Certo, riportare una storia così complessa in un’ora e mezza di rappresentazione teatrale può avere pro e contro, ma ritengo che nel complesso essa sia riuscita in pieno.
Protagonisti dell’opera sono stati, come già detto, giustizia, perdono, vendetta e pena, però vissuti da due punti di vista diversi, rispettivamente un detenuto e il familiare, marito e padre, delle vittime di quest’ultimo. Sono due storie che vengono raccontate in parallelo, ma ognuna è intrecciata inevitabilmente con l’altra.
La storia portata sul palcoscenico ha riferimenti alle vicende personali e giudiziare vissute dallo stesso scrittore del libro da cui l’opera teatrale è stata tratta, Massimo Carlotto, che nel 1976 è stato accusato di aver ucciso una ragazza. La stampa ci dice che Carlotto, condannato in via definitiva a 16 anni di carcere, si è ‘salvato’ dopo aver scontato circa 8 anni, perché gli è stata concessa la grazia dall’allora Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro. Lui, però, si è sempre proclamato innocente. Ancora oggi non si sa cosa sia realmente accaduto quel fatidico giorno del 1976.
Non ho letto il libro da cui l’opera nasce, ma dallo spettacolo si evincono vari riferimenti autobiografici dello scrittore.
Entrambi i protagonisti dello spettacolo, secondo me, hanno fatto una scelta di vita che ha influito sul loro modo di essere. Artefici del proprio destino?
Il detenuto Raffaello Beggiato, interpretato da Cladio Casadio, ha scelto di non fare il nome del complice della rapina così, una volta uscito dal carcere, avrebbe potuto godere della sua parte di bottino. In realtà, egli sente di meritare la prigione perché sa di essere lui il vero responsabile della morte della donna e del bambino uccisi durante la rapina. Quando chiede il perdono alla vittima indiretta, marito e padre delle vittima, perché ammalato di cancro (anche Carlotto si è ammalato in carcere), inizialmente lo fa per poter vivere il tempo che gli resta a far la bella vita con la sua parte del bottino.
In parallelo il dramma di Silvano Contin, recitato dal grande Giulio Scarpati, che ha fatto una scelta di vita a parer mio di tipo autolesionistica dal momento che ha voluto vivere nell’idea della vendetta. Una vendetta covata così nel profondo da farlo ammalare e condurlo, in maniera lucida, ad ammazzare a sua volta! Tale gesto, scoperto da Beggiato (al resto del mondo resterà un omicidio non risolto), induce quest’ultimo ad una intensa riflessione sulla propria vita e sul proprio operato, tale da costituirsi, ma senza denunciare Contin. Contin, però, non si pente di quanto ha commesso, neanche davanti a questa opportunità di “redenzione” offertagli da Beggiato. Anzi, egli sembra vivere una lucida follia, manifestata anche nel continuare a vivere una vita con la presenza, falsa, di moglie e figlio con cui condivide la sua personale vittoria (l’omicidio dei presunti responsabili dell’omicidio dei suoi cari).
Una storia che lascia una porta aperta alla riflessione profonda su queste importanti tematiche che, anche in chi non ha vissuto queste esperienze in prima persona, non può non fare: quando si è vittima di una situazione emotivamente e socialmente così devastante come quella che Contin ha vissuto, la perpetuazione della violenza può ridurre il carico emotivo che essa ha generato? Si dice che la violenza genera violenza, ma ognuno ha avuto in dotazione una certa dose di raziocinio da utilizzare in situazioni dove, purtroppo, si può essere vittime indirette di una situazione come quella del signor Contin: si può decidere di spezzare la catena?
Mi sono accorta di essermi dilungata, spero almeno di aver illustrato in maniera comprensibile il mio punto di vista in merito al contenuto dello spettacolo..da spettatrice, ma anche da essere umano..”
Vedi anche la recensione su L’Arena del 14 febbraio 2013: “Vittima e carnefice, bene e male: destini intrecciati“