Questo afferma Marta Cartabia, prima vicepresidente della Corte Costituzionale in una intervista concessa a LIANA MILELLA per il quotidiano “La Repubblica”
“La giustizia deve sempre esprimere un volto umano”. E “deve bilanciare le esigenze di tutti”. “È evidente che i processi troppo lunghi si tramutano in un anticipo di pena anche se l’imputato non è in carcere”.
“Il carcere rispecchi il volto costituzionale della pena e dia al detenuto una seconda chance”. “Partendo dal luogo più remoto della società, qual è appunto il carcere, la Corte sta portando la Costituzione ovunque. Perché la Costituzione e i suoi valori vivono e muoiono nella società”. Tutto questo dice a Repubblica, nella sua prima intervista, la presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia.
Presidente buongiorno. Appena l’altro ieri è stata depositata alla Corte l’ultima sentenza che la vede come relatrice. Dopo non ce ne saranno altre a sua firma. Riguarda le detenute madri di figli gravemente disabili che potranno scontare la pena anche a casa. Perché ha voluto scriverla?
“Non abbiamo voluto rinviarla perché riguardava la vita in concreto di due persone. Oltre che la madre reclusa, n’era coinvolta anche la figlia disabile, incolpevole. Ci si pensa raramente ma, in casi come questo, la pena è sì inflitta al condannato, ma ricade anche sulle persone vicine. L’ordinamento prevede strumenti – com’è la detenzione domiciliare – che, senza fare sconti, permettono di eseguire la pena con modalità che tengono conto delle persone innocenti bisognose di assistenza, ovviamente quando le esigenze della sicurezza lo consentono. Il magistrato di sorveglianza di certo non concederà la detenzione domiciliare a un detenuto pericoloso”.
Cos’ha fatto la Corte?
“Ha semplicemente detto che quando il figlio della madre detenuta è affetto da grave disabilità non conta l’età anagrafica, e quindi la detenzione domiciliare può essere concessa anche oltre l’età di dieci anni. Per le persone più fragili la vicinanza di quelle più prossime fa una grande differenza”.
Lei sta parlando di una giustizia dal volto umano.
“La giustizia deve sempre esprimere un volto umano: ciò significa anzitutto – come dice l’articolo 27 della Costituzione – che la pena non deve mai essere contraria al senso di umanità; ma anche che la giustizia deve essere capace di tenere conto e bilanciare le esigenze di tutti: la sicurezza sociale, il bisogno di giustizia delle vittime e lo scopo ultimo della pena che è quello di recuperare, riappacificare, permettere di ricominciare anche a chi ha sbagliato”.
Torna di nuovo il trinomio Corte costituzionale-carcere- diritti dei più deboli, divenuto ormai un leit motiv per la sua istituzione negli ultimi due anni grazie al “Viaggio in Italia”, i giudici costituzionali nelle carceri. C’è un collegamento tra il Viaggio e le sentenze?
“La Corte si è sempre occupata della condizione dei detenuti e in quest’ultima decisione vengono sviluppati alcuni principi già espressi in un caso analogo nel 2003. Certamente entrare negli istituti di pena ha permesso a noi giudici di comprendere e conoscere meglio la realtà del carcere. Mentre scrivevo quest’ultima sentenza avevo negli occhi il volto, e nelle orecchie le parole di una madre detenuta a Lecce, alla quale era stata negata la detenzione domiciliare perché la figlia aveva superato i dieci anni di età. Nel docufilm, questa donna si rivolgeva alla giudice de Pretis dicendo: “Signor giudice l’età non vuol dire nulla, perché la mia bambina è disabile e non sa nemmeno lavarsi le manine da sola”. Come darle torto? Come negare che la disabilità prolunga il bisogno del rapporto quotidiano con la madre?”.
Vita vissuta, soprattutto quella di chi è ai margini della società, chi viene da un altro Paese, ha commesso un grave delitto, ma s’impegna in un percorso di risocializzazione. La Corte ritiene che questo percorso sia fedele alla Costituzione?
“Certamente, ma la Corte opera con gli strumenti che le sono propri e nei limiti che sono imposti al suo agire: giudicando le leggi, eliminando gli ostacoli incostituzionali all’effettivo reinserimento sociale di chi in carcere ha davvero colto l’opportunità di una seconda chance. Ma, mi creda, questo è un compito corale”.