La Fraternità docet

Venerdì 15 aprile 2011 l’Associazione La Fraternità è stata invitata ad illustrare il contributo del volontariato nel contesto penitenziario, all’interno del corso universitario “Carcere e mondo della pena. Un contesto da umanizzare.”

Il corso è stato organizzato dalle Facoltà di Giurisprudenza e di Scienze della Formazione, nell’ambito della Convenzione stipulata tra l’Università di Verona, la Casa Circondariale di Montorio (Vr) e l’UEPE (Ufficio di Esecuzione Penale Esterna) di Verona e Vicenza. L’obiettivo è quello di far conoscere agli studenti le caratteristiche principali del sistema di esecuzione penale, le figure professionali e non professionali coinvolte ma soprattutto di favorire la riflessione sull’insieme di pregiudizi, luoghi comuni e rappresentazioni individuali che offuscano questo contesto.

Per presentare il ruolo della Fraternità in questo ambito, alcuni volontari dell’associazione hanno vestito i panni di professori per un giorno, avvalendosi di supporti tecnici, come PowerPoint e immagini, ma soprattutto della loro esperienza, per trasmettere ai ragazzi l’impegno e il coinvolgimento che sono alla base del loro lavoro.

 La proiezione del dvd “Raccontamela giusta”, in cui alcuni detenuti raccontano la propria storia, ha permesso ad una quarantina di studenti presenti in aula di calarsi fin da subito nella realtà del carcere e della pena, attraverso le parole di chi l’ha vissuta sulla propria pelle.

Subito dopo ha preso la parola il vicepresidente, Roberto Sandrini, membro dell’associazione fin dalle sue origine. Ripercorrendo la storia della Fraternità dalla sua fondazione, nel 1968, ad oggi, ha messo in rilievo le trasformazioni avvenute nel tempo, in risposta ai cambiamenti socio-culturali, alla tipologia di detenuti e al gruppo di lavoro stesso. Roberto parla con un po’ di nostalgia dei primi rudimentali approcci a questa realtà emarginata, ricordando le motivazioni che spingevano i primi volontari a riunirsi insieme al fondatore Fra Beppe: allora non c’erano progetti se non l’unico e il più importante di portare un po’ di conforto e sostegno ai detenuti ed ai loro familiari, partendo dal presupposto che nessuno, nemmeno chi aveva commesso un grave errore nella propria vita, meritava di essere dimenticato dal resto della società. Oggi invece l’associazione propone diversi progetti all’interno e all’esterno del carcere ed ha ampliato le proprie prospettive di intervento in direzione di un coinvolgimento più generale della popolazione, attraverso la sensibilizzazione sul tema della legalità e della pena.

Di fronte ad occhi interessati e concentrati, i diversi volontari espongono il proprio lavoro cercando di evidenziarne il senso. Francesca, che conduce colloqui individuali con “nuovi giunti” e con detenuti della terza sezione, parla dell’importanza dell’ascolto e di uno “spazio-tempo, normalmente non sperimentabile tra le mura di un carcere” definendolo “una presenza «dedicata», dove ciò che passa non sono le parole, ma sentimenti di empatia, non-giudizio, soprattutto accoglienza”.

Emanuela e Barbara, invece, raccontano il percorso che fanno in carcere con detenuti stranieri nell’ambito "Intercultura" , con l’obiettivo di creare un terreno di incontro per persone con provenienza, storia e quindi problematiche diverse. A partire da una piccola provocazione, come un testo o un brano musicale, i conduttori cercano di facilitare il confronto tra i partecipanti perché possano conoscersi, riflettere ma soprattutto evadere simbolicamente dal loro isolamento, nell’incontro con l’altro. L’altro è prima di tutti il volontario, reale ponte con l’esterno, ma anche il compagno straniero che attraverso il racconto di sé offre la possibilità di varcare le mura del carcere con l’immaginazione per approdare in mondi diversi alla scoperta di nuove emozioni.

Dopo Emanuela e Barbara è il turno di Luciano che ha da poco iniziato il suo servizio presso lo sportello stranieri e racconta le innumerevoli difficoltà con le quali si deve scontrare ogni giorno per poter aiutare gli immigrati a recuperare i documenti. Luciano apre e chiude il suo intervento con questa provocazione: “Provate ad immaginare cosa può fare uno straniero in carcere contro il nostro poderoso apparato burocratico!”.

Paola, invece, è una giovane volontaria, neolaureata in Psicologia, che affianca una Psicoterapeuta e un altro volontario nella conduzione di un gruppo in una sezione speciale del carcere, la sezione degli isolati. Per la tipologia di reati commessi questi detenuti vengono separati fisicamente dagli altri subendo così un’ulteriore emarginazione oltre a quella già avvenuta dal resto della società. All’interno di questi gruppi di auto aiuto, quindi, ripercorrendo la storia di ognuno, si cerca di stimolare la riflessione sulle proprie relazioni interpersonali e affettive, per far luce su un passato oscuro e spesso traumatico. Come spiega Paola, non è facile, la paura di essere giudicati e di entrare in contatto con dolori seppelliti dentro di sé, impedisce a molti di concludere il percorso. Ma forse, là dove si crea anche solo la possibilità di guardarsi dentro e di essere ascoltati per ciò che si è, e non per ciò che si ha commesso, là, forse, inizia il cambiamento.

Loredana, che è la responsabile del Progetto Affettività e partecipa come co-conduttrice ai gruppi per le famiglie, sposta la riflessione sul vissuto di chi sta fuori. Improvvisamente separati da figli o compagni di vita, i familiari si trovano a dover gestire sentimenti di sconforto e di preoccupazione ma anche di vergogna e rabbia per le conseguenze che indirettamente ricadono su di loro (isolamento dalla comunità di appartenenza, conflittualità all’interno della famiglia, senso di impotenza). Di fronte ad un tale sconvolgimento emotivo è importante che la famiglia trovi un ambiente protettivo e accogliente dove condividere la propria sofferenza, sentendosi, così, meno sola e accettata. In questo modo, Loredana, ha visto molte famiglie ritrovare pian piano equilibrio ed una parziale serenità sul piano affettivo.

Anche la Corrispondenza, sempre esposta da Loredana, costituisce un’altra importante risorsa offerta dai volontari ai detenuti, per affrontare quel senso di solitudine e di noia che invade le lunghissime giornate trascorse in cella, ma anche per creare uno spazio di pensiero su di sé, arricchito di significato dalla condivisione con un altro, oltre i confini del carcere.

Franca ricorda la famosa mostra “Tra Mura Les” , nata dalla volontà di portare oltre le mura, appunto, i quadri creati dai detenuti. In questo modo viene offerta, a loro, la possibilità di far evadere realmente la parte più intima, più vera di sé, racchiusa nelle forme e nei colori delle loro opere e a noi di conoscerla per provare a comprenderla.

Infine Oreste parla del Centro di Ascolto e del Progetto Car.Ter , riguardante l’inserimento lavorativo. Anch’egli lascia trasparire l’emozione di chi si rapporta con una realtà spesso difficile da comprendere e da aiutare, per la fragilità delle persone coinvolte ma anche della società in cui sono inserite. Sembra impossibile, a volte, poter sostenere chi, dopo innumerevoli tentativi, ricade negli stessi errori o chi sembra non voler essere aiutato. Così sentimenti di sconforto e di rabbia possono emergere anche nei volontari e impedire loro di ascoltare veramente i bisogni di chi hanno di fronte. E’ importante, però, riuscire a creare uno spazio dove i bisogni trovino una sorta di “contenitore”, sempre presente, perché ex detenuti e familiari possano riacquisire sicurezza e fiducia, in loro stessi ma anche negli altri. Questa, secondo Oreste e i volontari dell’associazione, dovrebbe essere la funzione principale del Centro d’Ascolto.

Con questi interventi i volontari della Fraternità hanno cercato di lasciare tra gli appunti degli studenti, non solo nozioni di carattere tecnico ma anche le emozioni di chi vive ogni giorno dentro e fuori quelle mura impregnate di sofferenza che avvolgono il carcere di Montorio.