La destra sa come cambiare la Costituzione: cominciare dal carcere, renderlo più affollato e più duro

di Federica Olivo

huffingtonpost.it, 21 ottobre 2022

La proposta di Cirielli per cambiare l’articolo 27 e avere meno rieducazione e più punizione in nome della sicurezza. Il percorso è difficile, lo spirito è chiaro. L’allarme degli esperti.

Per scovarla bisogna spulciare per bene sul sito della Camera. Ma basta un po’ di attenzione ed eccola lì, la proposta di modifica della Costituzione, firmata Edmondo Cirielli di Fratelli D’Italia, che vorrebbe cambiare l’articolo 27 della Carta. Quello che riguarda i diritti dei detenuti. E stabilisce principi fondamentali, basilari, di civiltà. La proposta, che era stata fatta anche nel corso della precedente legislatura quando FdI era partito d’opposizione e non forza principale del governo prossimo venturo, intacca direttamente il principio di rieducazione della pena. Vale a dire, quel principio secondo cui il condannato andrà in carcere laddove considerato colpevole di alcuni reati, ma avrà il diritto di andare oltre la sua pena. Di essere aiutato nel percorso di reinserimento nella società.

Intendiamoci: questo principio non viene cancellato. Ma viene ristretto in una serie di paletti, che lo renderebbero più difficile da applicare e non garantito a tutti. La proposta – il testo ancora non è disponibile sul sito della Camera ma, come ci ha confermato lo stesso Cirielli, è uguale a quello presentato nella precedente legislatura – è considerata di bandiera e difficilmente potrà essere portata a compimento. Anche perché il procedimento per rivedere la Costituzione è lungo e necessita di maggioranze importanti. È significativo però che un esponente del partito della futura premier abbia deciso di presentarla alla Camera come uno dei primi atti della legislatura. Perché sottointende la visione che FdI ha delle carceri e del trattamento da riservare ai detenuti. Se si pensa che Giorgia Meloni ha indicato come ministro della Giustizia in pectore il magistrato Carlo Nordio – volto del garantismo – allora proposte del genere diventano ancora più sorprendenti.

Partiamo dalla norma. Attualmente l’articolo 27 della Costituzione prescrive: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Se la proposta Cirielli andasse in porto diventerebbe così: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. La pena, che non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, assicura la giusta punizione del reo per il fatto commesso e la prevenzione generale e speciale del reato e deve tendere, con la collaborazione del condannato, alla sua rieducazione. Sono stabiliti con legge i limiti della finalità rieducativa in rapporto con le altre finalità e con le esigenze di difesa sociale. Non è ammessa la pena di morte. La legge determina, secondo princìpi conformi alle disposizioni di cui al presente articolo, le finalità e le modalità delle misure di sicurezza”.

Cosa comporterebbero queste modifiche? Il giudizio di Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto processuale penale all’Università Sapienza di Roma, è impietoso: “È un testo che non mi piace – dice ad HuffPost – perché trovo ci sia uno spostamento dalla funzione rieducativa della pena alla giustezza della sanzione. Insomma, nel dna di questa proposta di modifica c’è un retrogusto inquisitorio e sanzionatorio. L’articolo 27 della Costituzione è uno dei pilastri della nostra Carta, lasciamolo così com’è”. Il professore non condivide l’idea di mettere in questi termini i limiti alla funzione rieducativa della pena. “Lo ha detto anche la Corte costituzionale: il detenuto deve poter fare tutto ciò che faceva nella sua quotidianità, tranne ciò che davvero pregiudica la sicurezza della società”. Quanto all’espressione ‘giusta punizione’ Spangher tiene a ricordare che la condanna è giusta in quanto la decide un giudice “in nome del principio di legalità”. “Sembra – conclude – che questa proposta di legge faccia il paio con il rapporto Ocse sulle sentenze sulla corruzione internazionale in Italia. Lì si dice ‘assolvete troppo’. Qui, invece, si dice ‘condannate meglio’”.

C’è un inciso molto significativo in questa proposta di legge: quello che riguarda la ‘collaborazione del condannato’ alla sua rieducazione. Chi frequenta il mondo delle carceri sa bene che, al di là del consenso del detenuto, il percorso di allontanamento dai reati compiuti passa da una serie di fattori: la presenza di educatori nei penitenziari, la possibilità di lavorare e di fare altre attività definite ‘trattamentali’. In molte carceri queste opportunità ancora non ci sono. E allora come si pensa di risolvere la questione? Non introducendo servizi, ma facendo ricadere un’ulteriore responsabilità sulle spalle del detenuto. Una logica, questa, che Stefano Anastasia – Garante dei detenuti di Lazio e Umbria nonché tra i relatori a un panel sul carcere in programma al festival Parole di giustizia in corso tra Urbino, Pesaro e Fano – assolutamente non condivide: “Sembra che si voglia introdurre un obbligo di prestazione. È come se si dicesse che il condannato deve fare qualcosa per accedere al percorso di reinserimento nella società. Invece questa opportunità deve essere offerta a tutti”. Per Anastasia è molto significativo, e anche un po’ preoccupante, che si chieda di stabilire, in maniera così esplicita, dei limiti alla rieducazione sulla base “delle esigenze di difesa sociale” Cosa significa ciò? Si chiede Anastasia, parlando con HuffPost. “Con una formulazione del genere potrebbero considerarsi legittimi anche trattamenti inumani e degradanti, come l’isolamento prolungato o il divieto di tenere colloqui con i familiari. Questa proposta di legge, io credo, mette in discussione non solo il principio di rieducazione della pena ma anche l’universalità dei diritti umani. Che prescinde dalla gravità del reato”. Anastasia ci tiene a sgombrare il campo dagli equivoci: “La pena è sicuramente una reazione a un fatto di reato. Non si può cancellare la sua natura retributiva. Ma non si può neanche restringere in questo modo la rieducazione”.

Molto preoccupato Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone: “L’articolo 27 della Costituzione va difeso in Parlamento e nella società contro ogni proposta di modifica. Esso indica alla comunità intera quale debba essere la mission del servizio penale e penitenziario e costituisce un limite al potere punitivo dello Stato”, premette, parlando con HuffPost. La norma, continua, “fu scritta da chi aveva subito l’esperienza tragica della carcerazione durante il fascismo. Per questo si parla di umanità e di finalità rieducativa della pena. Altro era il sistema carcerario durante il regime. Dunque chiediamo di lasciar fuori dal dibattito politico una norma che è alla base della nostra democrazia costituzionale”.

Il tema, in effetti, è quasi più politico che giuridico. Perché dietro alla modifica di una norma fondamentale c’è la visione di un mondo in cui la sicurezza a ogni costo prevale sull’inclusione e sul diritto a ricominciare a vivere dopo aver sbagliato. Modificare in questo senso la Costituzione avrebbe poi tutta una serie di conseguenze sulle leggi ordinarie. Su quella sull’ergastolo ostativo – il carcere a vita senza possibilità di accedere alla liberazione anticipata, se non si collabora con la giustizia – ad esempio. La Corte costituzionale l’ha dichiarata incostituzionale guardando proprio all’articolo 27. Se cambia la Costituzione, va da sé che cambiano anche i parametri con cui giudicare le leggi. “Quando quella decisione è arrivata – ricorda Anastasia – coloro che erano contrari dicevano che se la norma era incostituzionale bastava cambiare la Costituzione. Era il pensiero anche di FdI, ma ai tempi era all’opposizione. Ora stanno per andare al governo, resta la speranza che abbassino queste bandiere”.