In questo articolo Don Gino Riboldi, cappellano del carcere minorile “Beccaria” di Milano, pubblicato sul Corriere della sera, torna sugli episodi di Santa Maria Capua Vetere, per analizzare, con la sua profonda conoscenza delle carceri, quanto è successo.
Siccome, dice lui, che ci sono alcune realtà in cui in cui la situazione è molto migliore di altre per una serie di motivi: organizzativi e umani ma anche di strutture e dotazione di personale adeguato, perché non è possibile esportare queste esperienze in tutte la altre carceri.
In effetti è una domanda che ci sono fatti in molti tra coloro che operano come volontari, probabilmente manca la competenza tecnica ma soprattutto la volontà politica per intervenire.
Per capire davvero quello che è successo a Santa Maria Capua Vetere occorre conoscere le strutture, sapere ciò che c’è e ciò che manca
Don Gino Rigoldi
Le scene del pestaggio dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere (945 detenuti per una capienza di 809, dati del ministero al 31 maggio 2021) ha suscitato indignazione e tristezza in molti italiani, ma c’è molta sofferenza anche tra le persone che lavorano nelle carceri, sia come poliziotti che come educatori, psicologi, assistenti sociali, cappellani. Posso immaginare che dopo il ripetuto spettacolo del pestaggio molti cittadini si siano domandati se ci sono, e quanti sono, gli istituti penali dove la violenza prevale sul dialogo e, in generale, sulla impresa della riabilitazione come richiesto dalla Costituzione.
Circola tra i detenuti e gli ex detenuti, ma anche tra operatori, la classificazione di alcuni carceri come punitivi, legati mediamente al trattamento particolarmente duro, vero o presunto, all’interno di quegli istituti. In Lombardia tra i più citati come punitivi sono Monza (614 detenuti per una capienza di 403), Vigevano (328/242), Pavia (593/518), Busto Arsizio (362/240) e, per alcuni, anche Opera (1.151/918). Solo che non esiste o, meglio, non dovrebbe esistere per legge nessun carcere punitivo.
In Lombardia vive anche il paradosso di una recidiva vicina al 20% per chi è stato detenuto nel carcere di Bollate (dove il numero di detenuti non supera la capienza), invece che di oltre il 50% di recidiva, e quindi di ritorno in carcere, per i detenuti di quasi tutti gli altri istituti di pena. La percentuale delle recidive esprime quanto riusciamo — o non riusciamo — a promuovere la sicurezza attraverso la reale riabilitazione dei detenuti, misura il buon impiego o lo sperpero di grandi cifre di danaro pubblico, sottolinea l’impegno morale, civile e politico. La percentuale di recidiva è, consentitemi «la domanda del secolo» o, meglio diciamo, «l’impegno prioritario» per chi ha responsabilità.
Per capire meglio quello che è successo a Santa Maria Capua Vetere occorre conoscere l’organizzazione e le strutture che regolano e gestiscono il carcere: quello che c’è e quello che manca. Ogni evento ha dietro una storia, anche quello di cui parliamo e di molti altri simili non conosciuti ma ugualmente, concretamente presenti.
Andando per ordine, direi che ogni istituto penale deve avere un direttore, un direttore e non un facente funzione o un reggente, perché queste figure, per la loro precarietà, spesso hanno poca motivazione a fare una programmazione di lungo respiro nella formazione professionale, nel lavoro, nella scuola, nel rapporto con la società civile esterna. Se poi un direttore, che ha già la responsabilità di un grande istituto, deve essere anche reggente di uno o più altri istituti, è ovvio che, fatte certamente le dovute eccezioni, provvederà al proprio istituto e andrà a firmare, o comunque sarà una presenza saltuaria, nell’uno o più istituti che gli vengono aggiunti. Ovvio che comanda chi c’è. Lo stesso dicasi per il comandante degli agenti di polizia.
Esiste, ma dovrebbe esistere in numero maggiore e con maggiori competenze, la figura dell’educatore carcerario. I dati forniti dal sindacato Sappe parlano di una media di un educatore ogni 80 detenuti (a Bollate uno ogni 67, a Taranto uno ogni 167 detenuti). Qualcuno la ritiene una presenza secondaria, ma in realtà è una necessità assoluta per il benessere tanto dei detenuti quanto degli agenti di polizia.
L’educatore ha la funzione di costruire e promuovere il rapporto tra il detenuto, la direzione, il suo avvocato, la sua famiglia e di pensare un minimo di progetto per il futuro, soprattutto per l’uscita del detenuto. È necessario un educatore ogni 30-50 detenuti o detenute, con l’aggiunta di alcuni educatori che, in collaborazione con la direzione, possano tessere rapporti con il mondo produttivo e i servizi del territorio.
Se manca l’educatore i detenuti più poveri — meno capaci di parlare, di farsi vedere e di rappresentare i loro bisogni — sono abbandonati alla disperazione. Chi ha poca conoscenza della lingua, basse capacità di espressione o di pensiero spesso ricorre al digiuno, alle ferite auto-inferte, a forme di proteste che avranno come interlocutori prevalenti gli agenti di polizia.
Occorre tenere presente che le persone che stanno più tempo e sono a più stretto e continuativo rapporto con i detenuti sono gli agenti di polizia penitenziaria. Se ci sono violenze e difficoltà i primi a dover intervenire sono loro.
Le violenze vanno sempre condannate, da qualsiasi parte provengono. Ma ogni violenza, ogni reato, nasce da una storia e in un contesto. Ridurle a forme di sadismo o di rappresaglia ha il solo effetto di nascondere il vero problema: le condizioni di vita e di lavoro nelle nostre carceri.
Esistono in Italia istituti penitenziari — penso a Bollate, a Padova, a Rebibbia, a Volterra — dove le condizioni di vita di tutti, detenuti e personale, sono positive. Lì non capiterebbero mai gli episodi come quello di Santa Maria Capua Vetere. La richiesta minima che possiamo rivolgere al ministero della Giustizia è di seguire i modelli positivi che già esistono. Se esistono, vuol dire che siamo stati capaci di realizzarli.
Cappellano del carcere minorile Beccaria di MilanoDon Gino Rigoldi