In un articolo pubblicato recentemente sul Corriere delle sera, Valerio Onida, eminente Costituzionalista e accademico italiano, cerca di chiarire, con parole chiare, la recente sentenza della CEDU (Corte Europea Diritti dell’Uomo) sull’ergastolo ostativo.
______________________________________________________________________________
CORRIERE DELLA SERA
La sentenza contro il «fine pena mai» ha suscitato molte reazioni negative. Ma la Costituzione parte dal presupposto che nessuno è irrecuperabile
“L’ergastolo ai mafiosi: dietro quella scelta”
di Valerio Onida
Caro direttore, mai mi sarei aspettato che la sentenza della Corte costituzionale (peraltro non ancora conosciuta nella sua motivazione) sull’articolo 4-bis del nostro ordinamento penitenziario – là dove vieta in modo assoluto la concessione di permessi premio ai detenuti condannati per reati di criminalità organizzata a meno che non collaborino con la giustizia – suscitasse tante reazioni negative e preoccupate anche in ambienti di giuristi e in settori di opinione pubblica lontani dalla visione e dalla retorica del «buttare via le chiavi». Da tempo è (o dovrebbe essere) acquisita nel nostro ordinamento l’idea che, come dice la Costituzione, «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Dunque l’esecuzione delle pene detentive non può mai prescindere dall’obiettivo della risocializzazione del reo. Questa, certo, è una «scommessa», e per essere vinta richiede il concorso della libera volontà del condannato, ma richiede necessariamente l’offerta a ogni condannato di un «percorso», anche progressivo, verso la libertà. Per questo la pena dell’ergastolo può essere ammessa costituzionalmente solo a patto che il condannato possa (e sappia fin dall’inizio di potere) compiere un percorso al termine del quale può riconquistare la libertà. Questo nel nostro ordinamento avviene soprattutto attraverso la «liberazione condizionale», cui si può accedere dopo un lungo periodo di detenzione (minimo 21 anni per gli ergastolani), e sottomettendosi successivamente a un periodo di libertà vigilata.
Nel caso dell’ergastolo «ostativo» l’accesso alla liberazione condizionale è consentito solo in caso di collaborazione con la giustizia, salvo che questa risulti impossibile perché non c’è più nulla da scoprire e da accertare. Fino a ieri la giurisprudenza della Corte costituzionale aveva giustificato questa disciplina, non ritenendola in contrasto con l’esigenza di prevedere una possibilità effettiva di liberazione, osservando che la collaborazione (se non impossibile) costituirebbe pur sempre una scelta libera del condannato, e quindi sarebbe accessibile a tutti. Ma è una scelta «libera» quella del condannato che, ad esempio, non abbia mai ammesso i propri crimini, e dunque per collaborare dovrebbe confessare? Nessuno può essere obbligato, anche dopo un giudicato di condanna, ad accusare se stesso. O, ancora, è una scelta «libera» che si può esigere dal condannato quella di collaborare quando ciò comporti accusare un proprio figlio o altro stretto congiunto, o esporre i propri cari a vendette e ritorsioni da parte delle organizzazioni criminali (e non bastano certo i programmi di protezione eventualmente previsti)? Insomma, altro è richiedere al condannato un effettivo «ravvedimento» e la dimostrazione di un distacco definitivo dalle organizzazioni criminali; altro pretendere che questo distacco possa essere dimostrato esclusivamente attraverso una attiva collaborazione con la giustizia. Per fare un paragone, è come se da prigionieri di guerra lo Stato che li ha catturati pretendesse non solo la cessazione definitiva di ogni attività ostile nei propri confronti, ma anche l’arruolamento nel proprio esercito per combattere attivamente con le armi i nemici dello Stato cui un tempo si erano associati. Senza dire, poi, che la condizione ineludibile della collaborazione per conquistare la libertà potrebbe indurre qualcuno a «collaborare» anche costruendo accuse false.
Il principio per cui non si può ammettere una pena detentiva perpetua, senza una possibilità effettiva di uscita, è sancito non solo dalla Costituzione, ma anche dalle convenzioni internazionali sui diritti, cui l’Italia non può certo sottrarsi, e dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo: la quale infatti, prima dell’ultima pronuncia della Corte costituzionale, ha emesso una sentenza in cui ha condannato l’Italia per avere violato questo principio nel caso di un condannato all’ergastolo cosiddetto «ostativo».
Non ha senso agitare il rischio di «liberazioni» incondizionate di massa dei condannati per mafia. Resta in ogni caso la necessità di valutare – e lo può e lo deve fare la magistratura nei casi concreti, nell’ottica costituzionale della «individualizzazione» della pena e del trattamento – l’effettività del percorso di risocializzazione e del distacco dalla criminalità organizzata, non certo limitandosi a registrare il comportamento «regolare» del detenuto in carcere.
Ma – dicono alcuni – la mafia si può combattere efficacemente solo con pene che non possono di fatto venir meno in assenza di collaborazione: chi entra nella mafia fa un giuramento di sangue che potrebbe essere rotto solo passando esplicitamente e attivamente all’«esercito» avversario, quello dello Stato che la persegue. Questa tesi ha due punti deboli. Il primo è che suppone una «forza» dell’affiliazione mafiosa comunque più forte di qualsiasi processo personale di ravvedimento: in sostanza il mafioso sarebbe «irricuperabile» alla società, salvo convincerlo o costringerlo a passare al «nemico». È un corollario dell’idea per cui l’attitudine a delinquere sarebbe un marchio incancellabile. La Costituzione invece parte dal presupposto che nessuna persona è a priori irrecuperabile.
Il secondo punto debole della tesi è che sembra supporre che di fronte a un male come la mafia si debba poter agire anche al di là dei limiti normalmente imposti all’esercizio del potere dello Stato. Con questo tipo di argomenti si potrebbe giungere a giustificare la pena di morte o l’uso della tortura, con la scusa che bisogna combattere mali estremi, come il terrorismo. Ma, come ha ricordato la Corte Suprema dello Stato di Israele in una famosa sentenza, «una democrazia deve talora combattere con un braccio legato dietro alla schiena», ma questo ne fa la forza. Rispettare sempre la dignità umana e i diritti inviolabili costituisce la sua essenza, ed è un importante aspetto della stessa esigenza di sicurezza.