… E continuavano a chiamarlo volontariato

Il punto 3 della Carta dei valori del volontariato dice: ” Il volontariato è azione gratuita. La gratuità è l’elemento distintivo dell’agire volontario e lo rende originale rispetto ad altre componenti del terzo settore e ad altre forme di impegno civile. Ciò comporta assenza di guadagno economico, libertà da ogni forma di potere e rinuncia ai vantaggi diretti e indiretti. (..) I volontari traggono dalla propria esperienza di dono motivi di arricchimento sul piano interiore e sul piano delle abilità relazionali.”

Nel pensiero e nella legislazione penale si sta facendo spazio a fatica un’idea, alla quale aderiamo incondizionatamente e che cerchiamo di diffondere: che il carcere non può essere la principale forma di risposta ai reati, che c’è un ventaglio di altre sanzioni più efficaci, e che tra queste dovrebbe comunque prevalere l’attività, rieducativa e riparatoria ad un tempo, a favore o delle vittime dirette del reato o della comunità offesa, possibilmente concordata con un percorso cosiddetto di mediazione.

Recentemente una trasmissione di “Report” ha richiamato l’attenzione sull’assurdo di una pena che costringe decine di migliaia di persone, per lo più con normali capacità muscolari o professionali, a non fare niente. Dopo che hanno provocato qualche danno, si usa il termine “pagare” per dire che stanno chiuse senza poter far niente di utile, tanto meno risarcire vittime e società. Cosa paga una sofferenza resa inutile?

Altrettanto paradossale è che le possibilità offerte dalle leggi che qui sotto riassumiamo, tutte imposte o come alternative ad un’altra pena, o come condizione per ottenere un beneficio, sono comunemente definite “volontariato”, confondendolo con il lavoro di servizio, o il lavoro non pagato perché in realtà il compenso va a risarcimento monetario o materiale o perfino morale di chi ha subito il reato, e che con il volontariato non c’entra.

Nell’ordinamento penitenziario, all’art. 47 sull’affidamento in prova al servizio sociale, è previsto che nel verbale delle prescrizioni “deve anche stabilirsi che l’affidato si adoperi per quanto possibile in favore della vittima del suo reato”. Nella prassi corrente capita raramente che venga avviato un tentativo d’incontro tra colpevole e vittima, che richiederebbe personale competente come nella giustizia minorile; è più frequente l’imposizione di un obbligo di “fare qualcosa”, da una lettera di scuse a qualche ora di attività di servizio, come Berlusconi con gli anziani. Un calcolo di convenienza: se vuoi l’affidamento, devi fare anche questo; quindi nessuna libertà o rinuncia a vantaggi.

La prima legge che parla di lavoro socialmente utile è la 689 del 1981 e riguarda la conversione delle pene pecuniarie per insolvibilità; l’art. 102 stabilisce che per cifre modeste “la pena può essere convertita, a richiesta del condannato, in lavoro sostitutivo”. E l’art. 105 ci spiega che “il lavoro sostitutivo consiste nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività”, con un elenco di enti e di ambiti.

Il decreto legge 122 del 1993 contro l’istigazione alla discriminazione e alla violenza razziale, etnica, religiosa, ecc. prevede all’art. 1 bis che, oltre alla condanna alla pena principale, il tribunale possa disporre, tra le sanzioni accessorie, anche l’”obbligo di prestare un’attività non retribuita a favore della collettività per finalità sociali o o di pubblica utilità”.

Il lavoro di pubblica utilità diventa pena principale con il decreto legislativo 274 del 2000 sui procedimenti per reati meno gravi, di competenza del giudice di pace. L’art. 54 prevede che “il giudice di pace può applicare la pena del lavoro di pubblica utilità solo su richiesta dell’imputato”. Conviene riportare per intero il secondo comma, perché resterà il riferimento richiamato da tutta la normativa successiva: “Il lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi e consiste nella prestazione di attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato”.

La sospensione condizionale della pena, prevista dall’articolo 165 del codice penale modificato dalla legge 145 del 2004, può essere subordinata all’adempimento  di obblighi, tra i quali, “se il condannato non si oppone, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato, comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna”.

La legge 272 del 2005 ha introdotto il comma 5 bis nell’art. 73 del DPR 309/1990 sugli stupefacenti. Nell’ipotesi di reato di produzione o spaccio considerati di lieve entità “commessi da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, il giudice (..) su richiesta dell’imputato (..) può applicare anziché le pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di pubblica utilità” di cui al già visto art. 54 del decreto sul giudice di pace.

Anche il codice della strada, aggiornato dalla legge 102 del 2006, rimanda alla stessa norma nel caso di guida sotto l’influenza dell’alcool (9 bis dell’art. 186) e di sostanze stupefacenti (8 bis dell’art. 187), aggiungendo che l’attività dev’essere svolta, “in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale (..) nonché nella partecipazione ad un programma terapeutico e socio-riabilitativo del soggetto tossicodipendente”. E ancora l’art. 224 bis dispone che “nel pronunciare sentenza di condanna alla pena della reclusione per un delitto colposo commesso con violazione delle norme del presente codice, il giudice può disporre altresì la sanzione amministrativa accessoria del lavoro di pubblica utilità.

E’ dall’applicazione di queste norme del codice della strada che deriva la maggior parte dei lavori di pubblica utilità assegnati in misura crescente negli ultimi tempi. Al 30 novembre erano in corso in Italia 5.448 esperienze. Nasce quindi per il Tribunale la necessità di reperire posti disponibili presso enti pubblici e associazioni di servizi no profit, soprattutto di volontariato, anche per il tramite del Centro servizi per il volontariato.

L’articolo di giornale che riportiamo risale a maggio, ma mette in evidenza i numeri di una tendenza significativa nella provincia di Verona. Vedi L’Arena del 21-5-14: “I debiti con la legge si scontano anche con il volontariato”. Il problema sta proprio in quell’inaccettabile parola “volontariato” per definire un obbligo o una pena, che hanno come alternativa o carcere o multe. Sarebbe tanto più semplice e corretto dire “servizio“, “lavoro socialmente utile”, attività comunque dignitosa e apprezzabile, anche se svolta in cambio di un vantaggio. Possiamo buttare un salvagente al titolista sforzando questa interpretazione: “I debiti con la legge si scontano anche con le associazioni di volontariato”.

Lo stesso si può dire della legge più recente, la n. 67 del 28 aprile 2014 che introduce  nel codice penale un articolo 168 bis sulla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, analogamente a quanto già è previsto nel processo minorile. Una persona imputata di reati non gravi, che prevedono solo una pena pecuniaria o una pena detentiva massima non superiore a 4 anni “può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova”, che “comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze” del reato, “nonché, ove possibile, il risarcimento del danno”. “Comporta altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale” e altre prescrizioni. Ahi, la confusione è entrata perfino nella legge. Che “rinuncia ai vantaggi diretti e indiretti” (nello spirito del volontariato) ci può essere, se addirittura, rispettando il programma del servizio sociale, si evita il processo?

La norma prosegue: “La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità” che “consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità’ ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività (..) La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore”.

Il successivo art. 168 ter stabilisce che “l’esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede”. E’ interessante in proposito anche il nuovo art. 464 bis del codice di procedura penale, che non riportiamo ma consigliamo di leggere.

Siamo solo agli inizi dell’applicazione di questa norma. Per Verona, vedi L’Arena dell’11-12-14: “Alternativa al carcere, già 165 gli ammessi”; peccato (per il titolista) che 165 siano invece le richieste, mentre gli ammessi alla prova sono ancora solo 5; e che non si tratti di alternativa al carcere, ma al processo.

E finalmente il decreto legge 78 del 2013, convertito con legge 94 del 2013, integrando il famoso art. 21 dell’ordinamento penitenziario sul lavoro esterno, prospetta qualcosa che possiamo, con una certa tranquillità, chiamare volontariato. Aggiunge infatti un comma 4 ter che dice: “I detenuti e gli internati di norma possono essere assegnati a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito, tenendo conto anche delle loro specifiche professionalità e attitudini lavorative, nell’esecuzione di progetti di pubblica utilità in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, le unioni di comuni, le aziende sanitarie locali o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. I detenuti e gli internati possono essere inoltre assegnati a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito a sostegno delle famiglie delle vittime dei reati da loro commessi. L’attività è in ogni caso svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dei detenuti e degli internati.”

A differenza di tutte le norme precedenti, questa non riguarda alternative al processo, alla pena, al carcere. Il lavoro, e ora anche l’attività volontaria all’esterno del carcere, sono modalità del trattamento penitenziario. La gratuità esclude ogni altro vantaggio se non quelli interiore e relazionale, che sono ammessi nel volontariato. Il detenuto può scegliere una nuova esperienza che già di per sé, fuori dal recinto dei muri, crea relazioni e apprendimenti e forse corrisponde ad un ripensamento dei propri valori. Non è escluso che dalle nuove abilità e rapporti nascano prospettive di futuro inserimento sociale e lavorativo. La pena tende a svincolarsi dallo stupido, inutile soffrire senza far niente e può diventare, in particolare per gli enti locali, una notevole risorsa per quei lavori di servizio pubblico che non sarebbero comunque affidati ad altre ditte per i noti drammatici limiti di bilancio.