Torino. Dopo la testimonianza della coordinatrice nazionale di Antigone nel carcere Lorusso e Cotugno. Trattamenti inumani e degradanti, la procura apre un’inchiesta
Era il 1998 quando Antigone per la prima volta ricevette l’autorizzazione dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a visitare tutti gli istituti di pena italiani. Allora ai vertici dell’Amministrazione c’era quel magistrato gentiluomo che era Sandro Margara. A lui sembrava naturale che un’organizzazione della società civile potesse avere una funzione di monitoraggio delle condizioni di detenzione. Da allora abbiamo visitato più volte tutte le carceri d’Italia. Lo abbiamo fatto sempre con uno spirito costruttivo e con discrezione.
Per alcuni anni siamo riusciti a raccontare non solo con le parole ma anche con le immagini quello che vedevamo. Il tutto sempre in uno spirito non di contrapposizione ma funzionale a rendere la pena coerente con il dettato costituzionale che vieta trattamenti contrari al senso di umanità. Purtroppo nelle ultime visite non abbiamo potuto tradurre anche in immagini le nostre parole in quanto ormai da due anni questa opportunità ci è stata tolta. Le immagini vanno spesso oltre le parole nel potere di raccontare la vita interna. Da quelle, rispetto alla nostra ultima visita al carcere di Torino, sarebbe stata per tutti più forte e immediata la sensazione di trovarsi di fronte a condizioni inumane e degradanti. Antigone rinnoverà la propria richiesta nel 2022 per poter portare all’interno le videocamere, strumento prezioso di trasparenza e democrazia.
Nei giorni scorsi Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, è stata in visita all’istituto torinese insieme al coordinatore dell’Osservatorio sulle carceri Alessio Scandurra. Marietti ha raccontato, in un resoconto che ha girato molto, quel che hanno visto nel reparto psichiatrico «Sestante» dell’istituto. Le sue parole hanno prodotto un’indignazione generalizzata che ha indotto l’Amministrazione Penitenziaria a chiudere quel reparto. Un reparto dove le persone vivono chiuse in circa venti piccole celle singole dalle condizioni degradate, vuote di quasi tutto se non un letto inchiodato al pavimento e un bagno alla turca aperto alla vista di tutti.
I nostri osservatori hanno trovato persone buttate per terra al buio nell’indifferenza generale, o che parlavano da sole con la faccia contro il muro, o ancora incapaci di reggersi sulle gambe e di tenere gli occhi aperti per i troppi medicinali assunti. Hanno trovato persone ridotte all’incapacità di parola, con la saliva che colava dalle labbra e gli occhi vuoti. Un uomo era al buio poiché la luce della sua cella era rotta e nessuno la aggiustava. Un altro uomo chiedeva che qualcuno scaricasse le sue feci visto che la turca non funzionava. Un ragazzino era terrorizzato. La mamma non era stata avvisata di dove si trovasse.
Erano cinque anni che il reparto «Sestante» era sotto l’attenzione pubblica. C’erano stati in precedenza segnalazioni e rapporti sia del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura sia del Garante nazionale delle persone private della libertà. Ora, solo quando l’indignazione ha trafitto i media, si è giunti a prendere coscienza che non si poteva tenere aperta una sezione di questo tipo.
Alcune osservazioni conclusive di una vicenda che ha visto la Procura torinese avviare un’inchiesta per maltrattamenti:
1) Il problema dei detenuti affetti da patologie psichiatriche non si risolve né aumentando i posti nelle Rems (che hanno sostituito i vecchi ospedali psichiatrici giudiziari) né trasformando reparti carcerari in veri e propri manicomi criminali. Il problema si risolve attraverso un’accurata ed equilibrata gestione socio-sanitaria di queste sezioni da parte dei servizi territoriali. Non ci si può affidare alla sola terapia farmacologica e là dove possibile bisogna pensare a percorsi che portino le persone a essere curate anche in contesti di libertà. In questi reparti deve essere assicurato un adeguato trattamento penitenziario.
2) E’ necessario che a partire da Torino si ridia slancio ad una visione della pena che per tutti sia umana e finalizzata al reinserimento sociale. La Ministra Marta Cartabia ne è consapevole. Non ritroviamo la stessa consapevolezza in una circolare dell’Amministrazione penitenziaria che vorrebbe allargare a dismisura la creazione di sezioni ad hoc per i detenuti accusati di essere fastidiosi.
3) Sarebbe importante che i media si riapproprino di un proprio ruolo di informazione e negozino un diverso modo di raccontare quello che accade nelle carceri italiane. Dalle pagine del Manifesto alcuni anni fa lanciammo una campagna per far entrare le tv e i giornali nelle carceri. Ne riconfermiamo oggi l’importanza, anche alla luce dei fatti di Torino.