A seguito della relazione al parlamento del garante Mauro Palma sullo stato delle carceri italiane, Ornella Favero, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti ha scritto le righe, che potete leggere qui sotto, per ribadire, senza polemiche, le tante cose che ancora non vanno nelle carceri italiane.
“La complessa ‘macchina’ della detenzione richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo”: sono parole di Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà personale, che ha messo il tema della qualità del tempo della carcerazione al centro della sua relazione al Parlamento per il 2022. E il tempo in effetti è il nodo centrale di tutto quello che in carcere non funziona proprio, ed è quindi il tempo che dovrebbe essere il cuore di un cambiamento radicale delle condizioni della detenzione.
Il tempo in carcere e la pandemia
Il tempo in carcere è spesso tempo vuoto, inutile, buttato, “ammazzato”, e lo è stato ancora di più durante la pandemia. Le persone detenute, ma anche il Volontariato e tutto il Terzo Settore, hanno vissuto la pandemia in carcere subendo ripetute chiusure e un “congelamento” di gran parte delle attività. Ma oggi, mentre fuori la vita è tornata a una “quasi normalità”, in galera qualcosa è cambiato? “Avevo ipotizzato e auspicato” ha detto il Garante “un ritorno alla normalità caratterizzato dalla riapertura di quei luoghi verso la ripresa di connessione con il mondo esterno. In realtà, tale connessione non si è ripresa: (…) ha prevalso e tuttora prevale un’idea riduttiva del rapporto con la realtà esterna”.
Quello che chiediamo allora è che il programma dei grandi cambiamenti necessari per le carceri parta da qui, dalla constatazione che il tempo del Covid è stato tempo di interruzione di relazioni e di rottura del vitale rapporto con il mondo esterno, e questa doppia sofferenza va compensata con una liberazione anticipata significativa: doppia sofferenza, doppio valore di un giorno di galera. E così si raddrizzerebbero anche tutte le storture citate dal Garante, a partire dalla presenza nelle carceri di persone con pene inferiori a un anno, a due anni, a tre anni, che potrebbero più proficuamente scontare quella pena in una misura di comunità. E si potrebbe partire da numeri meno pesanti per dare un impulso vero ai percorsi rieducativi, gli unici che la nostra Costituzione mette al centro delle pene.
Il tempo della rieducazione
Il Garante ha parlato anche di come “stabilire quale sia il tempo necessario perché la finalità rieducativa di una pena possa realizzarsi”: noi diciamo che, per ridurre i danni prodotti dal carcere, quel tempo deve essere davvero limitato il più possibile e riempito di contenuti. E questo vuol dire rilanciare con forza la rieducazione: quindi progetti che durino negli anni e non “progetti spot”, perché il valore aggiunto è sempre la continuità; ampliamento degli orari delle attività, perché non è possibile che alle tre del pomeriggio le carceri “muoiano” e non è possibile che un detenuto che vuole lavorare e studiare non lo possa fare perché gli orari coincidono sempre; più personale educativo, perché non si può pensare di promuovere l’accesso alle misure di comunità se non si potenziano le aree educative, ma non bastano più educatori, va curata la formazione del personale, perché sono anni che nelle carceri non si fa formazione mettendo a confronto sguardi e competenze diverse.
L’altra faccia del tempo della pena è fatta dall’attesa
Non si vive affatto bene aspettando “appesi” alla decisione di un magistrato di Sorveglianza, che ha un ruolo terribilmente importante, quello, per dirla brutalmente, di decidere di farti assaggiare un po’ di libertà, magari dopo anni, decenni di galera, o di non ritenerti ancora pronto al ritorno alla vita vera. I magistrati sono un po’ come i medici: hanno la tua vita tra le mani e sarebbe importante che qualche volta si mettessero nei panni del “paziente” e provassero a immaginare, per esempio, come ci si sente ad aspettare che qualcuno decida del tuo destino. Proprio con lo scopo di responsabilizzare la Pubblica Amministrazione in merito al suo operato, e per tutelare i diritti dei cittadini, nel 1990 è stato introdotto il “silenzio assenso”. Ecco, anche nell’ambito della Giustizia dovrebbe valere l’urgenza di avere risposte, perché i cittadini-detenuti sono ancora più dei cittadini liberi in balia dell’attesa, e lo sono le loro famiglie, i loro figli che vorrebbero riavere indietro un genitore. Attese snervanti che rendono la carcerazione un logorante percorso a ostacoli. E se qualche ostacolo venisse finalmente rimosso, stabilendo per legge dei tempi più certi, e una specie di silenzio-assenso se non vengono rispettati?
Il tempo di fare e quello di informare
Noi siamo impegnati a fare le cose, non possiamo inseguire ogni notizia falsa o incompleta che circola sui temi della Giustizia: è questa un po’ la modalità di lavoro del Ministero della Giustizia, da quando ne è a capo Marta Cartabia. Capisco il fastidio di dover dedicare tempo ed energie a confutare notizie imprecise, parziali, se non del tutto false, ma credo che i tanti, che hanno sostenuto questa ministra e il suo modo competente ed equilibrato di affrontare i temi della Giustizia, e fra questi ci metto migliaia di persone detenute, abbiano bisogno di sentirsi dire ogni giorno che cosa si sta facendo per loro e di vedere “smontate” le tante notizie spazzatura che circolano in proposito. Realtà come Ristretti Orizzonti, che hanno maturato una competenza enorme sui temi della comunicazione nell’ambito della Giustizia, continuano a insistere ossessivamente che la cattiva informazione sulle pene e sul carcere condiziona in modo intollerabile l’opinione pubblica, e condiziona di conseguenza la politica, e va combattuta giorno per giorno. Ma si può, per esempio, non reagire di fronte al titolo ipocrita scelto da un quotidiano per definire le riforme che la ministra sta mettendo in campo “Adesso Cartabia vuole scarcerare un carcerato su tre”? Sottilmente ipocrita perché fa pensare che la ministra voglia buttar fuori dalle carceri feroci criminali, e non piuttosto persone che probabilmente in carcere non ci dovrebbero neppure stare, che magari hanno problemi enormi di tossicodipendenza, che hanno da scontare pene o residui pena bassissimi, per reati che in paesi come la Germania, per fare un esempio, sarebbero probabilmente sanzionati solo con pene pecuniarie. Ma il nostro è il paese del “In galera, in galera!”, e questo è uno slogan idiota che va continuamente, pervicacemente smontato, spiegando alla società sempre più spaventata che tanta galera rovina gli esseri umani e non rafforza affatto la nostra sicurezza.
Il tempo degli affetti
Verrà mai un tempo in cui questo Paese smetterà di ridicolizzare l’amore, gli affetti, il diritto a una relazione affettiva e sessuale di quegli esseri umani che sono anche le persone detenute? Che smetterà di creare definizioni squallide come “celle a luci rosse” o inventare scoop fasulli su milioni di euro stanziati per le “casette dell’amore”? o terrorizzare con quella immagine ridicola dei detenuti in regime di 41 bis che direttamente dalle casette dell’amore, attraverso le loro mogli, potrebbero dirigere le più feroci organizzazioni criminali?
La realtà è che di amore ce n’è gran poco nelle carceri, e quel poco, paradosso dei paradossi, lo ha portato il Covid: una telefonata ogni giorno, invece che una a settimana, una videochiamata più o meno ogni settimana, la meraviglia di vedere sullo schermo dello smartphone (la sicurezza è sempre garantita dal controllo della Polizia Penitenziaria), a volte dopo anni di lontananza, le stanze della propria vita passata insieme ai volti dei propri cari: tutto questo DEVE RESTARE, è la base necessaria per ricostruire le relazioni distrutte dalla galera, per prevenire i suicidi, per tornare tutti a essere più umani.