AriaFerma

Un commento di Roberto Saviano sul film “AriaFerma”, potrebbe aiutarci a cominciare a capire il carcere.

Ariaferma, il problema più grande per le carceri è la nostra ignoranza (di Roberto Saviano)

Non abbiamo idea di come funzioni lì dentro e forse neanche abbiamo voglia di saperlo. Non conosciamo il quotidiano, come i detenuti occupano il tempo, se hanno la possibilità di essere curati, aiutati. Il film di Di Costanzo, con Toni Servillo, ci farà bene

Il carcere ha tanti problemi, ma forse il più grande siamo noi: noi che stiamo fuori; noi che non abbiamo idea di come funzioni la vita in detenzione, noi che probabilmente non abbiamo nemmeno voglia di saperlo. Questo mio pensiero potrebbe sembrare un paradosso, soprattutto agli occhi di chi invece sa esattamente quali sono le carenze strutturali di una istituzione che ogni giorno tradisce la sua missione e la tradisce per tutti, per i detenuti e per chi, a vario titolo, la frequenta. E noi non abbiamo idea di quante siano le figure professionali che servono al carcere, che ogni giorno varcano la soglia degli istituti penitenziari e che un po’ detenuti finiscono per essere anche loro. E questo no, non è un artificio retorico. Quello che voglio dire non è che “sono un po’ detenuti anche loro” perché lavorano in un luogo di reclusione, no. Lo sono invece perché vorrebbero che quel luogo funzionasse, che la missione di quel luogo si realizzasse.

«Sono un po’ detenuti anche loro» perché nonostante il lavoro quotidiano, spesso sfiancate, usurante, quasi del tutto privo di soddisfazioni, sanno di essere in pochi, di non riuscire a farsi carico di tutto. Mi rendo conto che quando parlo di carceri, avendo spesso pochissimo tempo e pochissimo spazio – non è un tema che porta attenzione, né tantomeno consenso – cerco di essere diretto, parlo dell’epifenomeno, della punta dell’iceberg, di ciò che è visibile perché il maggior numero di persone possa interessarsene e magari approfondire. Se dico che le carceri sono palestre di crimine – cosa vera – attiro subito l’attenzione di chi mi ascolta o legge; se però invito a riflettere su cosa sia la vita in detenzione e sul mancato rispetto dei diritti dei detenuti, già so che la risposta che mi verrà data è: se non volevano stare in carcere non avrebbero dovuto commettere reati. È questo pensiero banale, apparentemente innocuo, ad aver fornito a tutti i governi, da che ho memoria, il migliore degli alibi possibili per lasciare le cose come stanno, per promettere al più un incremento dell’edilizia penitenziaria senza che sia mai stato possibile dare avvio, tra i non addetti ai lavori, a un dibattito serio, nemmeno al cospetto di eventi straordinariamente gravi, come i 13 morti in carcere a marzo 2020 e “l’orribile mattanza” avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ad aprile dello stesso anno.

Ma la verità è che un dibattito serio non può prescindere dalla conoscenza, e conoscere non significa solo essere aggiornati sul numero di suicidi in carcere o sui maltrattamenti; sono episodi dai quali non si può certo prescindere, ma ci manca un dato essenziale per comprendere davvero cosa sia il carcere: l’idea del quotidiano, di come si svolge la vita in reclusione, di come i detenuti occupano il loro tempo, se hanno la possibilità di essere curati, ascoltati, aiutati in un percorso che è quanto di più vicino esista alla morte. Ho visto Ariafermail film di Leonardo Di Costanzo con Toni Servillo e Silvio Orlando ambientato in carcere. La fotografia che ho scelto è un frame del film e ritrae la polizia penitenziaria in una sezione del penitenziario che rappresenta il carcere nel carcere. È stata una visione straniante, quasi onirica, spero possiate vedere il film per confrontare il vostro giudizio con il mio.

Lo straniamento risiede in questo: dove lo spettatore che non conosce il carcere vede sopruso, io vedo umanità; dove chi non conosce il carcere vede pericolo, io vedo vita, che per essere tale deve avere margini di casualità. La vicenda narrata dal film si è verificata, ma non come è stata descritta. Si è verificata quando a marzo 2020, con l’inizio della pandemia, l’aria in carcere si è fermata. Niente più colloqui con i parenti e paura: del contagio, del virus che in comunità chiuse è di gran lunga più letale. Eppure la sospensione senza virus ci consente di osservare un quotidiano che per chiunque abbia un briciolo di pietà deve essere inaccettabile.

Provate voi a essere cambiati di cella all’improvviso quando credevate di poter essere invece trasferiti. Provate voi a non poter più cucinare ciò che mangiate, ma a dover consumare pasti precotti, sempre. Provate voi a trovarvi in una condizione di totale sospensione, che si aggiunge alla reclusione, senza poter parlare con un familiare, con una persona a voi cara, senza psicologi, senza educatori, senza aree trattamentali e senza sapere quando le cose potranno cambiare. «Sì, ma io non ho commesso nessun reato» non è il pensiero giusto, non è la risposta giusta. La risposta giusta è che nel carcere dobbiamo entrare, entrarci anche fisicamente per capire, quando giudichiamo, cosa stiamo giudicando. Ariaferma è un passo significativo in questa direzione.