di ALESSANDRO TROCINO
C’è chi ha notato che ha fatto più notizia la fuga dei sette ragazzi dal Beccaria che non gli 82 detenuti suicidi di quest’anno nelle carceri (ma mentre scriviamo sono già diventati 83). C’è chi è rimasto sorpreso da questa evasione di massa dal carcere minorile milanese. Tutti noi siamo rimasti sorpresi. Eppure bastava un minimo di rassegna stampa per capire che prima o poi sarebbe successo, così come prima o poi ci saranno altre rivolte e altre sommosse carcerarie, se non cambieranno le cose.
Leggiamo un brano di un articolo su «Ragazzi dentro», precedente all’evasione: «Il Beccaria non sembra più l’Istituto penale minorile (Ipm) modello che era stato in passato. Esempio di un ottimo dialogo tra dentro e fuori, complice un contesto molto recettivo e fertile come quello milanese. Anzi, colpisce il contrasto tra un quartiere intorno in rapidissima espansione e un istituto ancora alla prese (dopo 15 anni) con una ristrutturazione eterna di cui ancora non si vede la fine. Il cantiere a cielo aperto che interessa buona parte dell’Ipm è sintomatico di un istituto in eterna transizione, con una direzione “a scavalco” con altri istituti… Piuttosto ambigua la gestione degli spazi detentivi attigui all’infermeria. Si tratta di celle chiuse e più anguste di quelle dei reparti ordinari che ospitano ragazzi non solo per ragioni sanitarie ma anche disciplinari e di mera organizzazione degli spazi. Le tante attività trattamentali proposte faticano a tradursi in percorsi significativi di inserimento lavorativo».
La situazione del Beccaria l’hanno descritta in molti: 44 detenuti contro una capienza massima di 36, tasso di arrivi post covid molto elevato, lavori in corso infiniti dal 2008, da 20 anni senza un direttore. Rivolte a ripetizione, nel 2018 materassi e coperte dati alle fiamme, con don Gino Rigoldi che diceva: «La situazione al Beccaria è al limite e nessuno fa niente.Non so se bisogna aspettare che ci scappi il morto, perché il ministero si muova». Era appena arrivato in via Arenula il 5 Stelle Alfonso Bonafede, ministro che ai giornalisti in Transatlantico diceva: «Misure alternative al carcere? Ma no, i detenuti devono avere celle più grandi e con la televisione staranno benissimo». Insensibilità alle ragioni della civiltà giuridica e a quelle (costituzionali) del reinserimento sociale. Ma non è solo la destra o i 5 Stelle, anche la sinistra e il Pd ben poco hanno fatto in merito, nonostante le grandi dichiarazioni di principio. Pochi giorni fa al Beccaria c’è stata un’atroce violenza sessuale di gruppo con tortura. Clamore per qualche ora, poi si passa oltre, aspettando il prossimo stupro con bruciature di sigarette a ragazzi affidati allo Stato. Nel frattempo, solo nelle ultime settimane, due giovani detenuti in fuga da Nisida, maxirissa al carcere minorile Casal del Marmo di Roma, fiamme nel carcere minorile del Pratello, a Bologna.
A fronte di tutto questo, la risposta della politica, soprattutto a destra, è la solita: servono più agenti, servono più carceri. Matteo Salvini ha già annunciato la «messa in sicurezza» delle carceri: «Faremo ripartire le ruspe». Risposte facili e sbagliate, frutto di una campagna elettorale in misura ridotta. Intendiamoci, gli agenti in più servono di sicuro e il sovraffollamento è un problema grave anche nelle carceri per adulti. Ma l’evasione dei ragazzi non può essere usata come una clava per demolire una legislazione moderna, come strumento di indignazione. Dovrebbe essere invece considerata la risposta fisiologica all’abbandono di penitenziari e istituti minorili che sono da tempo una «discarica sociale».
Il carcere è una delle ultime «istituzioni totali» rimaste in Italia. Era una locuzione di moda negli anni ’70, coniata da Erving Goffman, che si riferiva a regimi chiusi, senza scambi sociali e rapporti con il mondo esterno. Nel 1988, come racconta il presidente dell’associazione Antigone Patrizio Gonella sul Manifesto, è stato approvato il codice di procedura per minorenni, «ispirato a principi di ragionevolezza, adeguatezza alla età in formazione dei ragazzi sotto processo, minimizzazione dell’impatto penale e carcerario, contrasto alla stigmatizzazione del processo e della condanna». Ministro della Giustizia era Giuliano Vassalli, nel governo De Mita I, era pre Tangentopoli.
Ma non basta. Scrive Gonella: «Il vero passo in avanti sarebbe quello di costruire non solo un codice di procedura ma anche un codice penale che si fondi sull’interesse superiore del minore. Oggi abbiamo un codice penale che si applica a adulti e ragazzini, permeato di un’idea di pena e di società che nulla ha a che fare con qualsivoglia riflessione pedagogica e con la centralità dell’essere bambino, adolescente, giovane adulto. Il sistema dei reati e delle pene per gli adulti presente nel codice del 1930 non soddisfa minimamente il principio, sancito nella Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989, del superiore interesse del minore. È necessaria una diversa elencazione di reati e un ben più vario pluralismo sanzionatorio. Un furto di un ragazzino in un supermercato non può essere paragonato a quello in appartamento di una persona adulta. Il primo potrebbe essere depenalizzato, trattato civilmente, o affidandosi a risposte diverse. Potrebbe essere trattato fuori dal diritto penale».
Che senso ha, si chiede Gonella, punire un ragazzino per il reato di oltraggio: «Educare, non punire. E laddove vi è punizione, questa non può essere la stessa prevista per un adulto. Non si tratta solo, come avviene oggi, di prevedere una durata inferiore alla pena della prigionia, ma di immaginarsi una diversificazione delle pene stesse, così lasciando al carcere una sempre maggiore residualità». Anche Gherardo Colombo, ex magistrato tra i più sensibili al tema, spiega che «bisogna potenziare le pene alternative».
Certo, può sembrare assurdo a chi pensa alla pena solo come retribuzione, cioè come punizione, come risposta del male contro il male. Se invece la si considera anche come strumento per recuperare una persona alla vita, alla società, allora serve altro, servono le pene alternative, serve la giustizia riparativa, ovvero i percorsi di riconciliazione con le vittime. Un vantaggio per persone che dentro il carcere si incattiviscono e diventano ancora più pericolose e per la società, che attraverso una recidiva bassissima, ottiene una riduzione della criminalità. A proposito di Beccaria, converrebbe tenere a mente quanto scriveva in «Dei delitti e delle pene»: «Il fine delle pene non è tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali».