Covid e carcere, un’occasione per la giustizia

di Luigi Manconi

Il 31 dicembre scade la normativa legata all’emergenza Coronavirus e negli istituti penitenziari italiani potrebbero tornare 700 persone. Uomini e donne che in questi due anni hanno avuto la possibilità di trovarsi un alloggio esterno dove vivere, tornare dopo lavoro, riabbracciare i propri cari. Senza delinquere

Il 31 dicembre scade la normativa legata all’emergenza anti-Covid e negli istituti penitenziari italiani potrebbero tornare 700 persone. Questa, infatti, sarebbe la diretta conseguenza di quanto accadrebbe se il Governo non accogliesse la richiesta dei Garanti regionali dei diritti delle persone private della libertà di prorogare la licenza straordinaria per i condannati e le condannate in semilibertà.

Più di due anni fa, infatti, quando il virus correva veloce fuori e soprattutto dentro il carcere, tra le misure adottate ci fu anche quella che prevedeva, per le persone detenute in semilibertà, di non rientrare in istituto di notte, limitando così ulteriori rischi di contagio.

Uomini e donne che in questi due anni hanno avuto la possibilità di trovarsi un alloggio esterno dove vivere, tornare dopo lavoro, riabbracciare i propri cari e, quindi, ricostruirsi una quotidianità. Persone che hanno scontato quasi tutta la pena in istituto e che, da quando hanno avuto accesso a questa opportunità, nella stragrande maggioranza dei casi non hanno commesso reati né infrazioni disciplinari.

Prorogare questa misura sarebbe in linea con quanto prevede la nostra Costituzione e, ancor di più, lo sarebbe immaginarsi una sanatoria valida una volta per tutte, invece di ritrovarci – puntualmente – a dover rincorrere le scadenze. Quello che chiedono i garanti è di permettere a questi detenuti di accedere, per legge, all’affidamento in prova al servizio sociale o alla liberazione condizionale, così da espiare la pena senza dover tornare in carcere.

Durante la pandemia le sezioni nido all’interno degli istituti si erano pressoché svuotate (fece scalpore il caso di Eduard, unico bambino recluso a Rebibbia, insieme a sua madre, nel maggio del 2020), grazie all’accesso, per le madri detenute, alle pene alternative. In quel periodo molti furono gli appelli affinché la pratica inaugurata durante l’emergenza sanitaria diventasse strutturale, fino a prevedere la definitiva chiusura di quelle sezioni all’interno degli istituti a favore del ricorso a case famiglia protette.

Così non è stato e, oggi, ancorché pochi, i bambini continuano a vivere in carcere con le loro madri. La possibilità di accedere alle pene alternative, giova ricordarlo, non fu una gentile concessione, quanto un diritto previsto per legge, specialmente nei casi di pene brevi a carico di donne con figli con meno di tre anni.

Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha recentemente ribadito come la certezza della pena non significhi, automaticamente, certezza del carcere. Auspicando che tale indiscutibile principio possa prima o poi valere anche per quelle madri detenute, mi chiedo se non sia il momento per il Governo di cogliere l’occasione per rispettare l’articolo 27, comma 3, della Costituzione e, con esso, la vita di centinaia di persone.