Contro i suicidi non servono nuove carceri ma applicare le misure alternative

Pubblichiamo la lettera che don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, ha scritto al quotidiano l’Avvenire. La pubblichiamo perché ha fatto delle osservazioni che ci sentiamo di condividere totalmente.

Caro direttore, sono cappellano del carcere di Busto Arsizio e fondatore della cooperativa sociale “La Valle di Ezechiele”. La scorsa estate mi sono fatto portavoce del dramma nelle celle, avviando la campagna

“Una telefonata ti può salvare la vita”, perché sia messo un telefono in ogni cella: scelta capace di rinvigorire i legami familiari, vero fattore di protezione sociale dall’isolamento e dall’abbandono che sembrano avere campo libero nelle celle.

Campagna ripresa dalla cara Ornella Favero anche nell’ultimo numero di “Ristretti Orizzonti” e sostenuta con vigore da Rita Bernardini. Il suo giornale anche recentemente ha dato spazio a questi pensieri e gliene sono grato.

Leggo su “Avvenire” del 15 novembre un’intervista a uno dei responsabili dei sindacati della Polizia Penitenziaria che propone, come prima “ricetta” contro il dramma suicidario di questo 2022, la costruzione di nuove carceri. Mi incuriosisce molto, visto che le sigle sindacali lamentano sempre e non senza ragioni la grave carenza di organico già allo stato attuale nella gestione dei penitenziari. Non si riesce ad avere personale per le carceri che già abbiamo: come possiamo immaginare di crearne di nuove?

Ma soprattutto… nella cooperativa “La Valle di Ezechiele”, inaugurata l’anno scorso dalla ministra Cartabia, in due anni abbiamo accolto 12 persone (2 sono in arrivo): nessuna di loro ha commesso nuovi reati. Forse la soluzione non è costruire nuove carceri, ma favorire misure alternative alla detenzione, che danno risultati decisamente più “rassicuranti” in termini di recidiva. Oltre al telefono in cella, com’era nelle proposte della Commissione Ruotolo, e com’è nel resto d’Europa. Cosa ne pensa?

Risponde Marco Tarquinio

Penso e dico e scrivo da anni, caro don David, che la strada maestra è quella che lei indica con perfetta cognizione di causa: dare forza e spazio alla cosiddetta “giustizia riparativa”, alle misure alternative al carcere e ai percorsi di studio e professionalizzanti che offrono ai detenuti un’alternativa seria, fatta di lavoro e di normalità, alla tentazione di ritornare alla “malavita”. Credo che si tratti di uno degli investimenti più importati che dobbiamo fare per il bene della nostra società. Le persone non sono mai solo i loro errori, e possono venirne fuori.