Celle stracolme e scelte politiche, il coraggio che non c’è

di Danilo Paolini

Avvenire, 14 dicembre 2018

Un Paese che ha le carceri piene non è un Paese in buona salute. Sappiamo che esistono correnti di pensiero per cui è vero il contrario, ma in genere sono fondate sulla paura di quelli che stanno “fuori” e la paura non è mai uno stato d’animo positivo.

Sarà che viviamo un tempo ricco di paura, quindi povero sotto tanti altri aspetti, sarà che “il vento è cambiato”, come usa dire soprattutto a Roma (dove però capita che il vento porti con sé anche miasmi tossici), fatto sta che le carceri italiane sono piene. Sono troppo piene. Di nuovo. Siamo tornati sopra quota 60mila persone recluse, ovvero circa 10mila oltre la capienza regolamentare, per altro teorica perché molti posti sono inagibili per varie ragioni.

E non serviva un mago – magari Houdini, il re degli evasi – per prevedere che, dopo un periodo di relativa deflazione, la situazione sarebbe nuovamente peggiorata. I segnali c’erano tutti. Sarebbe bastato, per esempio, sfogliare il Rapporto di Antigone, non l’edizione del 2018, ma quella del 2017. Citiamo: “Se i prossimi anni dovessero vedere una crescita della popolazione detenuta pari a quella registrata negli ultimi sei mesi, alla fine del 2020 saremmo già oltre i 67.000”. Insomma, un film già visto al quale speravamo di non dover assistere di nuovo.

Nel 2013, quando la Corte Europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per “trattamento inumano e degradante”, i detenuti erano 65mila. Manca poco, di questo passo. Era la nota sentenza-pilota della causa “Torreggiani e altri”. Pilota perché se entro un anno il quadro non fosse migliorato, oltre ai risarcimenti decisi a favore dei ricorrenti, l’Italia avrebbe dovuto versare milioni di euro in rimborsi per le altre cause pendenti, che erano poco meno di 7mila. Ci salvammo, allora, grazie ad alcune misure di alleggerimento. Cominciò così un periodo di discesa delle presenze, fino alle 52mila del 2015, comunque sopra la soglia regolamentare.

Tuttavia non poteva essere quella la soluzione definitiva. La svolta sarebbe dovuta avvenire l’anno scorso, con la riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma la maggioranza di allora, capeggiata dal Partito democratico, non ebbe il coraggio di completare l’attuazione della legge delega, che pure aveva voluto e approvato in Parlamento.

Le elezioni erano vicine e, annusando il vento di cui sopra, si pensò forse (sbagliando, a giudicare dai risultati delle urne) che non era il caso di insistere sull’estensione delle pene alternative alla prigione e dell’affidamento in prova. Perciò si lasciò la palla al Parlamento attuale, dove la nuova maggioranza, già contraria quando era opposizione, ha depotenziato la riforma, togliendo proprio le misure alternative che, lo dicono i dati, abbattono radicalmente la “ricaduta” nel crimine.

Per quanto si è capito finora, il programma oggi prevede più carceri, con la costruzione di nuovi istituti e l’adattamento di caserme dismesse, e non meno detenuti. Nel frattempo aumentano i suicidi dietro le sbarre (il 2018 non si è ancora chiuso e già ostenta questo nero primato rispetto agli ultimi 5 anni) e l’Italia è di nuovo in “zona Torreggiani”.