di Gigliola Alfaro
agensir.it, 25 ottobre 2018
In 230 hanno partecipato alla terza edizione dell’incontro, che si è svolto a Montesilvano, in provincia di Pescara, dal 22 al 24 ottobre. Tra i temi affrontati, percorsi di fede, ecumenismo e dialogo interreligioso con detenuti di altre confessioni e religioni, giustizia riparativa, giovani, reinserimento.
Una grande partecipazione ha caratterizzato il terzo convegno nazionale dei cappellani e degli operatori pastorali nelle carceri: 230 persone si sono riunite da lunedì 22 a mercoledì 24 ottobre a Montesilvano (Pe) per riflettere sul tema “Chiesa riconciliata in carcere”. Don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, fa un bilancio dell’incontro per il Sir.
Don Raffaele, quali temi avete messo a fuoco durante il convegno?
L’appuntamento ci ha permesso di spaziare sui temi che ci stanno più a cuore e sui problemi che affrontiamo quotidianamente nelle nostre carceri, come il cammino di fede da proporre nelle carceri, in un tempo in cui si registra la crisi di un rapporto con Dio. In questo noi cappellani siamo accomunati alle difficoltà che incontrano tanti parroci. Al tempo stesso, siamo artefici di ecumenismo e di dialogo interreligioso, perché curiamo molto il rapporto con le altre confessioni e religioni nelle carceri. In questo senso, però, sarebbe anche opportuna una formazione adeguata per avviare un miglior dialogo.
Tra le attenzioni al centro del convegno, anche la giustizia riparativa?
Certamente, è un tema che interpella tutti gli operatori, non solo noi cappellani, perché tutti vorremmo avviare dei cammini di riconciliazione. Ne parliamo da anni, ma c’è sempre difficoltà: se non c’è reale volontà di incontro e un’attenzione reciproca, con il desiderio di riconoscere il proprio errore, da un lato, e di perdonare, dall’altro, questo discorso è fallimentare. È un problema anche di cultura, di sensibilità, al quale noi stiamo cercando di dare il nostro contributo creando gruppi formati per questo tipo di mediazione. Ma le leggi non ci aiutano.
Con il Sinodo che volge ormai quasi al termine, si è parlato anche di giovani?
Proprio in occasione del Sinodo, noi cappellani abbiamo chiesto che la pastorale giovanile entrasse nelle carceri per rapportarsi ai giovani detenuti, avviando un dialogo tra coetanei. In alcune diocesi il nostro appello è stato accolto e i giovani delle diocesi hanno incontrato i ragazzi ristretti, in particolare durante il pellegrinaggio verso Roma, intrapreso in occasione dell’incontro di Papa Francesco con i giovani italiani ad agosto scorso. Ora chiediamo un’attenzione più costante da parte dei giovani, che non si limiti ad un evento unico.
Quanto è difficile il reinserimento dei detenuti anche nelle nostre comunità?
È necessaria una maggiore attenzione delle parrocchie ad accogliere giovani che escono dal carcere. Noi all’interno delle carceri cerchiamo di creare delle comunità, riflesso di quelle che i detenuti dovrebbero trovare fuori. Per agevolare gli ex ristretti che vogliono continuare un percorso di fede nelle nostre comunità parrocchiali c’è bisogno dell’accoglienza e dell’attenzione; viceversa, devono mancare il pregiudizio e la paura.
Nei giorni scorsi i Radicali hanno denunciato già 50 suicidi tra i detenuti nel 2018…
Il carcere deve essere una realtà ben vigilata. E questo non solo a vantaggio dei detenuti, ma anche della polizia penitenziaria. Infatti, quest’anno ci sono stati suicidi anche tra gli agenti. La realtà del carcere è sempre contraddistinta dall’emarginazione. Tanti suicidi avvengono perché c’è poca attenzione verso le fasce più deboli e ciò è dovuto anche alla mancanza di personale e di educatori all’interno degli istituti.
Episodi di violenza sono avvenuti nei giorni scorsi, come la rissa a Terni tra detenuti o l’aggressione a personale medico e agenti a Marassi…
Queste tensioni all’interno delle carceri ci saranno sempre perché non sono luoghi sereni: le persone che scontano una pena si sentono mortificate nella loro dignità. Pesa anche la scarsità di attività trattamentali, di incontri con educatori e volontari, di possibilità di lavoro e di progetti.
Grande sgomento ha causato l’uccisione dei due figli da parte della madre detenuta a Rebibbia. Come ovviare a questi drammi?
I bambini non dovrebbero stare nelle carceri. Sarebbe necessaria un’attenzione particolare verso le madri che hanno dei bambini in prigione con loro. Di qui la necessità di strutture ad hoc dove sia garantita la vigilanza delle detenute, ma anche la libertà dei piccoli.
Ora si è fatto anche un passo indietro sulla facilitazione delle misure alternative…
Per tutta quella fascia di popolazione carceraria, che non si è coperta di gravi reati, è importante un lavoro, per riappropriarsi della vita e del futuro. Lo Stato e la società civile dovrebbero dare delle risposte concrete, perché la recidiva si abbassa molto quando si offrono reali occasioni di riscatto.
La Chiesa di Papa Francesco cosa sta facendo per il pianeta carcere?
Noi continuamente ringraziamo il Pontefice. Da quando ha iniziato il suo ministero ha aperto il cuore della misericordia a molti, entrando nelle carceri e risvegliando le coscienze di molti, nella politica e tra la società civile. Il Giubileo della misericordia ci ha dato un grande aiuto: molte comunità esterne sono entrate in carcere creando un ponte tra dentro e fuori.
Ci sono nuove iniziative in cantiere?
Stiamo cercando di promuovere in tutte le regioni italiane la Giornata della misericordia, con il coinvolgimento, oltre che dei cappellani, della magistratura, delle direzioni, dei volontari, dei religiosi. La Giornata dovrebbe coincidere con la Domenica della Misericordia, che è quella successiva alla Pasqua. Già diverse regioni hanno aderito all’iniziativa, come Campania, Sicilia, Calabria, Marche. Per adesso, la Giornata si svolge a macchia di leopardo, ma l’intento è di far aderire tutte le regioni per dare un messaggio forte alla società e alla politica affinché ci sia una maggiore attenzione al mondo del carcere.