Bel articolo di Agnese Moro sulla “Stampa” di oggi sul senso della Giustizia e della Pena. Scritto con lucidità e chiarezza, l’autrice esprime il senso di disagio che molte persone stanno vivendo in questo momento storico per quanto riguarda la cultura del perdono e dell’odio.
Dal carcere risposte umane, no alla linea della vendetta.
Di Agnese Moro, La Stampa 17.01.2019
Mi ricordo che tanti anni fa, mentre discutevamo della legge sul divorzio, allora sottoposta a referendum, mio padre Aldo – da buon giurista – ebbe modo di spiegarmi che una legge non contiene solo delle norme, ma definisce anche che cosa vogliamo essere come Paese, come società e come persone. Non l’ho mai dimenticato. E mi torna in mente in maniera particolarmente viva quando sento discutere del nostro sistema penale e dei principi che debbono reggerlo. Si fronteggiano sostanzialmente due visioni. Una prima sostiene che chi ha compiuto errori gravi o gravissimi – tra i quali, ovviamente, primeggia l’omicidio – devono essere puniti con una sofferenza eterna, in qualche modo proporzionale all’irrimediabilità dell’atto compiuto.
Anche perché, secondo questo modo di vedere, se si è stati cattivi una volta lo si sarà per sempre, senza possibilità di cambiare, di ritornare in sé, di comprendere i propri errori e di non commetterli più. Un secondo punto di vista – che è quello scelto da coloro che pensarono e scrissero la Costituzione, e da mio padre tra essi – chi ha commesso un errore, anche gravissimo, deve essere fermato, giudicato, aiutato con ogni mezzo e risorsa ad un ripensamento serio; e, se privato della libertà, trattato, comunque, con la dignità e il rispetto che merita ogni persona, buona o cattiva che sia. Questo secondo modo di vedere le cose scommette sul fatto che le persone possono e spesso vogliono cambiare, e che lo fanno molto di più di quello che noi pensiamo. Ho avuto molte occasioni per constatarlo personalmente, non solo attraverso il dialogo serrato con alcuni di coloro che allora furono protagonisti della lotta armata, ma anche con chi si è macchiato di altri tipi di delitti, incontrati in prigione o fuori.
Nei loro racconti non è il carcere duro, la repressione, l’isolamento ad aiutare una profonda riflessione, ma piuttosto l’essere stati riconosciuti da qualcuno (un cappellano, un volontario, una vittima, un operatore) come esseri umani. E, quindi, in qualche modo, comunque simili e fratelli. Chi ci governa e chi fa le leggi deve dirci chiaramente che cosa ci sta proponendo e quali saranno le conseguenze. Se prevalesse la linea vendicativa non saremmo «solo» fuori dalla nostra Costituzione, ma moltiplicheremmo anche la forza di quella catena del male che parte da ogni gesto di violenza – privato o pubblico che sia – e che si allarga e si rinforza continuamente. Senza cambiare né le persone, né le situazioni, e senza placare in alcun modo l’amarezza e la rabbia delle vittime con le quali troppo spesso ci si fa scudo. Per quanto mi riguarda mi auguro che sceglieremo sempre lo sforzo, personale e collettivo, di non moltiplicare, ma piuttosto di spezzare la catena del male. Con una risposta seriamente umana, che aiuti davvero chi ha sbagliato a tornate tra noi. Sperando di non perderne nessuno.